Le galassie neonate dell’Universo primordiale hanno subito diverse fasi di formazione stellare, e generato grandi quantità di radiazioni ionizzanti. Tuttavia, essendo molto lontane da noi, è stato molto impegnativo finora poterne studiare il contenuto. Un modo per farlo è quello di sfruttare l’effetto di lente gravitazionale, che si verifica quando enormi masse, come ammassi di galassie, deviano, amplificano e moltiplicano la luce proveniente da sorgenti lontane, permettendoci di vederle.
Di recente, un team internazionale ha utilizzato il telescopio spaziale James Webb per analizzare l’arco delle Gemme Cosmiche (Cosmic Gems Arc in inglese), una galassia giovanissima e in realtà denominata SPT0615-JD1 che a noi appare come un arco distorto con una forte luminosità, grazie all’effetto di lente gravitazionale. La vediamo com’era quando l’Universo aveva circa 460 milioni di anni, ovvero indietro del 97% del tempo cosmico.
Nell’arco delle Gemme Cosmiche, inizialmente scoperto nelle immagini del telescopio Hubble nel 2018, il James Webb ha individuato cinque ammassi stellari già legati gravitazionalmente. Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce, quindi si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi giovani che osserviamo nell’Universo locale.
Questa è la primissima scoperta finora di ammassi stellari in una galassia così giovane dell’Universo primordiale.
Ecco dove si sono formate e come si sono distribuite le prime stelle
Nella nostra Via Lattea vediamo antichi ammassi globulari di stelle, vincolati dalla gravità e sopravvissuti per miliardi di anni. Si tratta di antichi resti di un’intensa formazione stellare nell’Universo primordiale, ma ancora non sappiamo esattamente dove e quando si siano formati.
Quindi aver rilevato massicci ammassi stellari giovani in una galassia a meno di 500 milioni di anni dopo il Big Bang fornisce un’eccellente visione delle prime fasi di un processo che potrebbe portare alla formazione di ammassi globulari. Con il James Webb stiamo letteralmente osservando dove si sono formate le prime stelle e come sono distribuite, in modo simile a come viene utilizzato il Hubble per studiare le galassie locali.
Gli ammassi rilevati in questa giovanissima galassia sono massicci, densi e situati in una regione molto piccola, ma contribuiscono anche con la maggior parte della luce ultravioletta proveniente dalla galassia ospite. Una caratteristicha che aiuterà gli scienziati a comprendere meglio come le galassie neonate hanno formato le loro stelle, e dove si sono formati gli ammassi globulari.
Larry Bradley dello Space Telescope Science Institute, PI del programma di osservazione Webb che ha catturato questi dati, ha affermato: “Nessun altro telescopio avrebbe potuto fare questa scoperta”.
Cosa comporta la scoperta di questi ammassi?
Questi risultati sono rilevanti principalmente per due ragioni:
- Gli ammassi trovati da Webb sono i precursori degli ammassi globulari che osserviamo oggi, che già sono quasi tanto antichi quanto l’Universo. Possono quindi aiutarci a comprendere la natura e la storia passata degli ammassi vicini.
- Ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono distruggere il mezzo interstellare della galassia ospite, e con le loro stelle giocare un ruolo chiave nel processo di rionizzazione dell’Universo.
In futuro, il team spera di costruire un campione di galassie con caratteristiche simili, cosa che molto probabilmente accadrà secondo gli scienziati, per approfondire la comprensione delle galassie primordiali e anche dei precursori degli ammassi che vediamo oggi.
Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni spettroscopiche con il Webb. Ha infatti in programma di studiare questa galassia con gli strumenti NIRSpec e MIRI nel Ciclo 3 di osservazioni. Le osservazioni NIRSpec permetteranno di confermare il redshift della galassia e di studiare l’emissione ultravioletta degli ammassi stellari. I dati MIRI invece consentiranno di studiare le proprietà del gas ionizzato.
Allo studio hanno partecipato Eros Vanzella e Matteo Messa dell’Istituto Nazionale di AstroFisica italiano (INAF). Pubblicato su Nature, l’abstract è reperibile qui.