Il sistema di protezione termica (TPS o Thermal Protection System in inglese) fa parte dei sistemi di gestione termica presenti sui veicoli spaziali e gioca un ruolo fondamentale nel proteggerli durante le fasi di ascesa verso lo spazio e rientro in atmosfera. Con questo articolo inizia una rubrica, che verrà completata venerdì 6 maggio. In quattro articoli affronteremo tutte le particolarità e le diverse versioni dei sistemi di protezione termica per i mezzi spaziali. Le successive parti di questa guida sono le seguenti:
Il Thermal Protection System serve a proteggere il veicolo spaziale dal calore che si sviluppa durante le fasi di volo a velocità supersoniche e ipersoniche in atmosfera; ovvero l’ascesa verso lo spazio (come nel caso di un lanciatore) e il rientro sul pianeta (nel caso di una capsula o navetta). L’ingresso in atmosfera è il compito più probante, in quanto il veicolo affronta gli strati atmosferici più esterni con velocità dell’ordine dei kilometri al secondo. Ad esempio, sono circa 8 km/s per il rientro dall’orbita bassa terrestre, più di 11 km/s dalla luna o Marte. In atmosfera si decelera, fino a velocità abbastanza basse, centinaia di metri al secondo, tali da permettere il rilascio dei paracadute.
Fintanto che si trova ad alta quota, quindi, il veicolo deve sopravvivere a un ambiente estremo. Infatti, l’alta velocità provoca la formazione di onde d’urto che comprimono e riscaldano l’aria in prossimità del veicolo, generando forti stress meccanici e termici sulla sua struttura. Il calore può essere trasferito alla struttura del veicolo in tre modi. I primi due, conduzione e convezione, sono dovuti al contatto diretto tra l’aria, scaldata e compressa dalle onde d’urto, e la superficie del veicolo.
Generalmente, la conduzione gioca un ruolo limitato nello scambio di calore tra aria ed veicolo in fase di rientro, mentre la convezione è il meccanismo dominante nel caso di rientri a velocità relativamente basse ed è stato da sempre preso in considerazione nella progettazione degli scudi termici per le varie missioni d’ingresso in atmosfera.
Non così semplice
In caso di condizioni di rientro più proibitive, il gas compresso dalle onde d’urto può raggiungere temperature così elevate da emettere notevoli quantità di calore per irraggiamento. Viene quindi emessa energia sotto forma di radiazione. In questo caso il veicolo riceve calore anche senza contatto diretto con il gas compresso. Finora questo meccanismo è stato spesso lasciato in secondo piano, sia per il suo contributo a volte trascurabile rispetto alla convezione sia a causa della difficoltà di modellazione del fenomeno nelle applicazioni d’interesse.
Indubbiamente, però, il contributo dovuto all’irraggiamento acquisirà sempre più importanza con l’aumento della massa e delle velocità d’ingresso, come in caso di arrivi nell’atmosfera marziana con lander sempre più grandi, che porteranno a temperature via via più elevate e quindi a più energia emessa. Infine, a complicare ulteriormente il quadro della situazione, vanno anche considerate le reazioni chimiche che si possono innescare nelle condizioni tipiche del rientro atmosferico. Fenomeni come la ionizzazione, la dissociazione e la ricombinazione delle molecole d’aria possono profondamente impattare la distribuzione dei flussi di calore lungo la superficie del veicolo, generando criticità in particolari zone del veicolo.
Il rientro è più importante
Nel caso di un veicolo per il quale è previsto il rientro in atmosfera, il dimensionamento del sistema di protezione termica viene fatto basandosi sulle condizioni previste per la fase d’ingresso, senza particolari accorgimenti per la fase di ascesa. Durante questa fase, infatti, i carichi sia meccanici che termici sono molto meno gravosi rispetto a quelli presenti in fase di rientro.
Le velocità sono infatti molto più basse, specialmente a bassa quota dove l’aria è più densa, e il TPS risulta quindi molto meno sollecitato. Si suppone quindi che possa resistere senza grossi problemi. Nel caso di vettori destinati semplicemente a uscire dall’atmosfera, il TPS è ovviamente dimensionato in accordo alle condizioni riscontrate in tale fase. Nel seguente video è ripreso il rientro in atmosfera, distruttivo, della capsula europea ATV-1 dalla ISS. Il video è stato girato nel 2008 con una telecamera ad alta risoluzione montata appositamente su un aereo per studiare la fisica del rientro in atmosfera.
Come è nato il sistema di protezione termica per mezzi spaziali
Il TPS è fondamentale nel caso in cui si voglia far sopravvivere un generico velivolo (sia esso un aereo supersonico/ipersonico o una navetta spaziale) che si muove a grande velocità attraverso l’atmosfera. Ciò è apparso chiaro ancor prima che vi fosse un razzo effettivamente capace di raggiungere lo spazio. Fu Robert Goddard a immaginare, già nel 1919, l’utilizzo di un sistema in grado di proteggere un veicolo dal calore sviluppato durante il rientro in atmosfera, suggerendo l’utilizzo di un sistema che si comportasse come gli strati esterni delle meteoriti i quali, disgregandosi, rimuovono calore e permettono al nucleo di giungere fino a terra.
La necessità di avere un TPS divenne lampante una volta sviluppati dei razzi in grado di superare la linea di Karman (già con i V2 del 1944) e resa quindi possibile l’idea di arrivare in orbita. Senza un’adeguata protezione durante il rientro in atmosfera, un qualsiasi velivolo non era in grado di resistere all’ambiente estremo descritto in precedenza.
Allo stesso modo, il superamento della velocità del suono in volo atmosferico livellato con il primo degli X-planes portava a problematiche simili, seppur non così marcate come per i veicoli spaziali. La soluzione del comune problema prese però due strade in parte diverse. Nel caso dei velivoli supersonici, che dovevano effettivamente volare in atmosfera, si puntò a ridurre la resistenza aerodinamica adottando delle geometrie affusolate e accettando di avere onde d’urto vicine alle superfici del velivolo. Il calore da esse generato era comunque gestibile “semplicemente” sviluppando nuovi materiali in grado di resistervi.
I diversi tipi di TPS spaziale
Al contrario, per le navette spaziali che al rientro dall’orbita raggiungevano velocità ipersoniche, almeno 5 volte superiori a quella del suono, si optò per un cambio di geometria. I corpi tozzi presero il posto di quelli affusolati. Da un lato aumentava la resistenza aerodinamica (svantaggio in fase di ascesa), dall’altro si riducevano i flussi di calore che impattavano la superficie del veicolo distribuendo il calore su un’area più grande e allontanando l’urto.
A questo si aggiungeva, ovviamente, la necessità di utilizzare comunque dei materiali in grado di resistere a temperature elevate senza danneggiarsi troppo.
Dunque, a partire dalla metà del secolo scorso, è iniziato lo sviluppo di diversi tipi di sistemi di protezione termica, in larga parte orientati a garantire la sicurezza di capsule durante il rientro in atmosfera con velocità sempre più elevate mano a mano che si raggiungevano orbite più alte. Dall’orbita bassa terrestre al rientro delle missioni Apollo, per arrivare in futuro a capsule in rientro da Marte e oltre.
Attualmente i sistemi di protezione termica vengono classicamente divisi in tre categorie:
- Sistemi passivi
- I sistemi semi-passivi
- E i sistemi attivi
Nei prossimi giorni vedremo nel dettaglio ognuno di questi TPS, cercando di capire come e perchè si differenzia dagli altri. Infine, venerdì 6 maggio, nell’ultimo articolo di questa rubrica affronteremo brevemente le prospettive future di questa tecnologia.
La guida completa al sistema di protezione termica di un mezzo spaziale è una guida ideata e scritta da Giuseppe Chiapparino.
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