Le prime osservazioni del telescopio spaziale James Webb avevano rivelato galassie sorprendentemente luminose, e quindi apparentemente troppo massicce, nell’Universo primordiale, sollevando dubbi sulla validità del modello cosmologico standard.
Ora un nuovo studio, condotto da ricercatori dell’Università del Texas di Austin e basato sui dati dell’indagine Cosmic Evolution Early Release Science (CEERS) Survey di Webb, ha fatto luce su questo mistero.
Il team ha scoperto che alcune galassie apparentemente troppo massicce lo sono in realtà molto meno, poiché la loro elevata luminosità è causata principalmente dai dischi di accrescimento attorno a buchi neri supermassicci. Questi oggetti emettono molta luce, facendo sembrare la galassia ospite più grande, e quindi più massiccia, di quanto sia realmente.
Galassie troppo luminose? Sì, ma non per le stelle
Gli scienziati hanno analizzato le galassie di CEERS con masse stellari superiori a 10 miliardi di masse solari in un intervallo di redshift z, ovvero di spostamento verso il rosso della radiazione, da 4 a 8, corrispondente a un’epoca cosmica tra 1.5 e 0.6 miliardi di anni dopo il Big Bang. Utilizzando sofisticati metodi di modellazione, il team ha stimato le masse stellari, i tassi di formazione stellare e le età delle galassie osservate.
L’analisi spettroscopica di alcuni di questi oggetti ha rivelato la presenza di gas in movimento ad alta velocità, una firma caratteristica dei dischi di accrescimento, ovvero dei dischi di materiale caldo in orbita attorno ai buchi neri. Questa scoperta suggerisce che i nuclei galattici attivi (AGN) fossero più comuni nell’Universo primordiale di quanto si pensasse in precedenza.
Di conseguenza, l’elevata luminosità di alcune delle galassie inizialmente pensate come troppo massive non è dovuta interamente alle stelle, ma in gran parte alla presenza di dischi di accrescimento caldi attorno a buchi neri supermassicci. Questi oggetti, denominati little red dots per il loro aspetto compatto e rossastro nelle immagini di Webb, emettono una grande quantità di luce, facendo sembrare le galassie che li ospitano più grandi di quanto in realtà non siano.
Rimuovendo questi oggetti dal campione, i ricercatori hanno ottenuto una stima più accurata della popolazione di galassie massicce primordiali.
Rimane però un problema
Nonostante la correzione apportata dall’identificazione degli AGN, lo studio rivela che il numero di galassie massicce nell’universo primordiale rimane circa due volte superiore a quanto previsto dal modello cosmologico standard. Questo eccesso, anche se meno drammatico di quanto inizialmente pensato, richiede comunque una spiegazione.
Una possibile interpretazione, suggerita dai ricercatori, è che la formazione stellare nell’Universo primordiale fosse più efficiente di quanto lo sia oggi. L’Universo giovane era più denso, e questo potrebbe aver reso più difficile per il gas essere espulso durante la formazione stellare, permettendo un processo di formazione stellare più rapido ed efficiente.
Un’altra spiegazione potrebbe essere che nelle galassie massicce l’efficienza con cui la materia ordinaria (i barioni) si trasforma in stelle potrebbe variare, influenzando così la formazione stellare e la massa visibile delle galassie. I ricercatori hanno calcolato che questa efficienza dovrebbe aumentare da circa il 14% a redshift 4-5 fino al 30% a redshift 7, per spiegare le osservazioni. Questo suggerisce che i processi di feedback che regolano la formazione stellare potrebbero essere stati meno efficaci nell’Universo primordiale.
Lo studio, pubblicato sulla rivista The Astronomical Journal, è reperibile qui.
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