Sistema solare
| On 4 settimane ago

I detriti provocati dallo schianto di DART potrebbero arrivare alla Terra e Marte entro un decennio

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Un team internazionale di ricercatori, guidato da Eloy Peña-Asensio del Politecnico di Milano, ha condotto uno studio sulle conseguenze a lungo termine della missione DART (Double Asteroid Redirection Test) della NASA, esplorando il destino dei detriti generati dal suo impatto con l’asteroide Dimorphos a settembre 2022.

Lo studio si basa su dati raccolti dal CubeSat LICIACube (Light Italian CubeSat for Imaging of Asteroids), costruito da Argotec in Italia e rilasciato 10 giorni prima dello schianto di DART, che ha documentato l’evento fornendo informazioni cruciali sulle condizioni iniziali del materiale espulso.

A partire dalle osservazioni di LICIACube, il team ha effettuato simulazioni dinamiche di oltre 3 milioni di particelle, con dimensioni variabili da 10 centimetri a 30 micrometri e velocità fino a 500 m/s. Le simulazioni, eseguite sui supercomputer del Navigation and Ancillary Information Facility (NAIF) della NASA, hanno tracciato le traiettorie di questi detriti per un periodo di 100 anni.

I ricercatori hanno così scoperto che alcune particelle potrebbero raggiungere Marte in circa 13 anni e la Terra in soli 7 anni, a seconda della loro velocità iniziale. Il team ha calcolato le caratteristiche orbitali e le direzioni di arrivo di questi potenziali “Dimorphidi”, offrendo agli astronomi gli strumenti necessari per identificarli nei prossimi decenni.

La missione DART e le sue conseguenze

La missione DART, lanciata dalla NASA il 24 novembre 2021, ha segnato un momento storico per la difesa planetaria. Il 26 settembre 2022, la sonda ha colpito con successo Dimorphos, la piccola luna dell’asteroide Didymos, dimostrando la fattibilità del metodo dell’impatto cinetico per deviare asteroidi potenzialmente pericolosi.

L’obbiettivo principale di DART era alterare l’orbita di Dimorphos attorno a Didymos, testando così la capacità dell’umanità di modificare la traiettoria di un asteroide, se necessario. L’impatto ha effettivamente ridotto il periodo orbitale di Dimorphos di circa 32 minuti.

Tuttavia, le conseguenze di questo impatto vanno oltre la semplice modifica dell’orbita. L’impatto ha generato una notevole quantità di detriti, espulsi nello spazio a varie velocità. Questi detriti non solo forniscono informazioni preziose sulla composizione e struttura di Dimorphos, ma anche sulla fisica degli impatti ad alta velocità nello spazio.

Evoluzione nube di detriti dopo l’impatto di DART. Credits: ESO/Opitom et al.

Detriti in arrivo

Lo studio condotto da Peña-Asensio e colleghi ha rivelato risultati particolarmente interessanti riguardo il destino dei detriti generati dall’impatto di DART. Le simulazioni hanno mostrato che le particelle espulse a velocità inferiori a 500 m/s potrebbero raggiungere Marte in circa 13 anni. Ancora più sorprendente, le particelle lanciate a velocità superiori a 1.5 km/s potrebbero raggiungere la Terra in soli 7 anni.

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I ricercatori hanno anche identificato pattern specifici nella distribuzione dei detriti. Per esempio, il materiale che potrebbe raggiungere Marte è stato prevalentemente lanciato dalla regione settentrionale del sito d’impatto su Dimorphos. Al contrario, i detriti diretti verso il sistema Terra-Luna mostrano una tendenza a provenire dalla regione sud-occidentale del sito d’impatto.

Le dimensioni delle particelle giocano un ruolo sottile ma significativo nel loro destino: le particelle più grandi hanno una probabilità leggermente maggiore di raggiungere Marte, mentre quelle più piccole tendono a favorire il sistema Terra-Luna. Un effetto che potrebbe anche avere implicazioni per future missioni di campionamento di asteroidi.

Un’altra scoperta interessante riguarda la tempistica degli arrivi dei detriti. Le simulazioni mostrano che il processo di consegna dei detriti è guidato da periodi sinodici, con “salti” regolari che coincidono con i periodi orbitali dei corpi celesti coinvolti.

Infine, i ricercatori hanno fornito informazioni dettagliate sulle caratteristiche orbitali e le direzioni di arrivo (dette radianti) di queste potenziali meteore create da DART. Questi dati saranno cruciali per le future campagne di osservazione, e permetteranno agli astronomi di identificare e tracciare queste meteore uniche nel loro genere.

Direzione dei detti di detriti in un sistema di riferimento centrato su Dimorphos, che mostrano la futura consegna dei detriti a Marte e al sistema Terra-Luna. Credits: Peña-Asensio et al. 2024

Un pericolo? No, un’opportunità

È importante sottolineare che i detriti di DART non rappresentano un pericolo per la Terra o Marte. Le particelle che potrebbero raggiungere la Terra, per esempio, sono troppo piccole per rappresentare una minaccia. Come spiega Peña-Asensio:

Se questi frammenti di Dimorphos espulsi raggiungono la Terra, non rappresenteranno alcun rischio. Le loro piccole dimensioni e l’elevata velocità li faranno disintegrare nell’atmosfera, creando una scia luminosa nel cielo.

Invece di un pericolo, questi detriti offrono la possibilità di osservare la prima pioggia di meteore “artificiale” nella storia dell’umanità. Le campagne di osservazione meteorica nei prossimi decenni saranno quindi cruciali per determinare se DART ha effettivamente creato questa nuova pioggia di meteore, che i ricercatori hanno già soprannominato “Dimorphidi“.

Inoltre, anche le future missioni su Marte potrebbero avere l’opportunità di osservare meteore marziane generate dai frammenti di Dimorphos che bruciano nella sua atmosfera. Queste osservazioni potrebbero fornire preziose informazioni sulla composizione degli asteroidi e sui processi atmosferici su Marte.

Intanto, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) sta finendo i preparativi per la missione Hera, che partirà a ottobre 2024 a bordo di un Falcon 9 di SpaceX e raggiungerà il sistema Didymos-Dimorphos nel 2026 per condurre un’indagine dettagliata post-impatto. Hera studierà il cratere lasciato da DART, misurerà con precisione la massa di Dimorphos e analizzerà la sua composizione superficiale.

Lo studio, pubblicato su The Planetary Science Journal, è reperibile qui in versione pre-print.

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