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| On 4 mesi ago

Trovate ulteriori prove di vulcanismo attivo in corso su Venere

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Venere ha dimensioni e massa molto simili alla Terra, ma le sue condizioni ambientali sono nettamente differenti. La sua densa e acida atmosfera, le temperature superficiali medie che superano i 460°, l’assenza dell’acqua che aveva un tempo: tutti indizi che il suo percorso evolutivo è stato diverso da quello del nostro pianeta. Ma in che modo? E perché?

Per rispondere a queste domande, gli scienziati analizzano i dati di antiche missioni riguardanti sia l’atmosfera, sia la superficie, e in particolare l’intensa attività geologica e vulcanica venusiana. Di recente, un team di ricerca guidato da Davide Sulcanese e Giuseppe Mitri dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, Marco Mastrogiuseppe dell’Università La Sapienza di Roma e Link Campus University di Roma, e finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana ha eseguito una nuova analisi dei dati radar ottenuti tra il 1990 e il 1994 dalla missione Magellan della NASA.

Ha così individuato segni di deformazione di un cratere vulcanico, potenzialmente ancora attivo, che presenta anche nuovi flussi di lava formatisi proprio durante il periodo di osservazione di Magellan. Ciò dimostra che il vulcanismo sul pianeta è in corso ancora oggi, o che lo è stato di recente, e che Venere potrebbe essere ancora geologicamente attiva.

Tracce di attività recente

La superficie di Venere ha subito sostanziali alterazioni causate dall’attività vulcanica nel corso della sua storia geologica. Alcune caratteristiche vulcaniche suggeriscono che questa attività sia persistita fino a 2.5 milioni di anni fa.

Nel 2023, alcune prove di cambiamenti morfologici in superficie nei pressi di una bocca vulcanica erano state interpretate come potenziale segnale di attività vulcanica in corso. I dati, sempre di Magellan, avevano rivelato una bocca vulcanica una bocca vulcanica associata a Maat Mons che stava cambiando significativamente tra febbraio e ottobre 1991, aumentando di dimensioni.

I dati di altitudine per la regione di Maat e Ozza Mons sulla superficie di Venere. A destra, le osservazioni di Magellan prima (A) e dopo (B) della bocca espansa su Maat Mons, con possibili nuove colate laviche dopo un evento eruttivo. Questo studio risale al 2023. Credits: Robert Herrick/UAF

Per indagare queste alterazioni, il team italiano di ricercatori ha di recente confrontato le immagini radar delle stesse regioni osservate dalla Magellan. In questo modo, hanno trovato delle variazioni morfologiche sul fianco occidentale di Sif Mons, un imponente vulcano a scudo, e sulla pianura vulcanica chiamata Niobe Planitia. Questi cambiamenti possono essere spiegati con la presenza di nuovi flussi di lava legati ad attività vulcaniche che hanno avuto luogo durante la missione di mappatura di Magellan.

Guardando al futuro: VERITAS

“Queste nuove scoperte forniscono prove convincenti del tipo di regioni che dovremmo prendere di mira con VERITAS quando arriverà su Venere” ha affermato Suzanne Smrekar, PI della futura missione VERITAS. Acronimo di Venus Emissivity, Radio Science, InSAR, Topography, and Spectroscopy, la sonda servirà a identificare i cambiamenti superficiali con dati molto più completi e con una risoluzione più elevata rispetto alle immagini prese da Magellan.

La prova della presenza di attività geologica e vulcanica recente, evidente anche nei dati Magellan a bassa risoluzione, aumenta il potenziale di una missione come VERITAS, alla quale anche l’Italia partecipa. Il nostro Paese è impegnato nello sviluppo e nella realizzazione di tre strumenti di bordo:

ANNUNCIO
  1. Il transponder IDST (Integrated Deep Space Transponder), per garantire le comunicazioni ed eseguire l’esperimento che permetterà la determinazione della struttura interna di Venere tramite la misurazione del suo campo di gravità.
  2. La parte inerente alla radiofrequenza del radar VISAR (Venus Interferometric Synthetic Aperture Radar), utile allo studio della superficie del pianeta, inclusi i fenomeni di vulcanismo.
  3. L’antenna HGA (High-Gain Antenna) per la trasmissione dei dati.

L’abstract dello studio, pubblicato su Nature Astronomy, è reperibile qui.

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