Nella vastità del Sistema Solare, con la sua varietà di corpi celesti, Venere ha da sempre ispirato studiosi di ogni disciplina. Forse per l’impenetrabilità delle sue spesse nubi tossiche o per le temperature infernali della sua superfice, forse perché è il pianeta più vicino alla Terra.
L’idea di mandare degli esseri umani a visitare questo mondo alieno, persino più alieno di Marte, ha accarezzato la mente di alcuni, lasciandosi alle spalle una delle proposte di missione spaziale più incredibili che la mente umana abbia concepito: la missione nota come Venus Flyby.
Questo articolo racconterà la storia, gli obiettivi e la tecnologia di questa missione che, se approvata, sarebbe partita mezzo secolo fa: il 31 Ottobre 1973. Tre coraggiosi astronauti si sarebbero imbarcati per un fugace sorvolo del nostro dirimpettaio orbitale, prima di fare nuovamente rotta verso casa, dove avrebbero fatto ritorno nel Dicembre 1974.
Partorita negli anni 1967/1968, Venus Flyby era parte del cosiddetto Apollo Application Program, che proponeva missioni spaziali umane avanzate, utilizzando sistemi già sviluppati per il programma Apollo. Lo studio è stato condotto e redatto da Bellcom, azienda nata dai Bell Labs nel 1962 per fornire consulenza tecnica sul programma Apollo.
Come anticipato, si prevedeva di riutilizzare l’architettura del razzo Saturn V, modificando il Command and Service Module e progettando un nuovo modulo, denominato Environmental Support Module, che rimpiazzasse il Lunar Excursion Module delle missioni Apollo.
Durante la lunga fase di viaggio interplanetario, la navicella sarebbe stata così configurata:
- un CSM (Command and Service Module), derivato dal Block 2 ed opportunamente modificato con nuovi sistemi di comunicazione, controllo ambientale e scudo termico per sopportare le maggiori velocità di ingresso nell’atmosfera terrestre;
- un ESM (Environmental Support Module), dedicato agli esperimenti scientifici e ad alloggiare il sistema di supporto alla vita per la fase interplanetaria della missione;
- un terzo stadio del Saturn V con relativa Instrument Unit (S-IVB/IU) contenente gli alloggi, dato il grande volume a disposizione.
Architettura di missione
Le opportunità di lancio dipendevano dalla posizione relativa tra Venere e la Terra, che si ripete ogni 19 mesi e mezzo, un periodo di tempo noto come “sinodico”.
La partenza sarebbe avvenuta il 31 Ottobre 1973 dalla rampa LC39A di Cape Canaveral, la stessa di Apollo 11, con un razzo Saturn V opportunamente configurato. Il viaggio sarebbe durato in totale 396 giorni, così suddivisi:
- 123 giorni necessari a raggiungere il pianeta Venere, il cui sorvolo sarebbe avvenuto il 3 Marzo 1974 ad una altitudine di 6000 km, pari ad un raggio venusiano;
- 273 giorni per la fase interplanetaria di ritorno, con un rientro a Terra il 1 Dicembre 1974.
Immediatamente dopo il lancio, il Saturn V si sarebbe immesso in un’orbita di parcheggio attorno alla Terra, dove avrebbe avuto luogo una delle operazioni più importanti dell’intera missione. La navicella andava infatti riassemblata per farle assumere la configurazione interplanetaria.
Il Command and Service Module si sarebbe staccato dal terzo stadio del Saturn V, ruotando di 180 gradi ed agganciandosi poi all’ESM, in maniera molto simile a quanto fatto nelle missioni Apollo per estrarre il modulo lunare dal terzo stadio del Saturn V.
Se, però, nelle missioni Apollo questa riconfigurazione avveniva dopo la Trans Lunar Injection (dunque già sulla strada per la Luna), in questo caso andava effettuata in orbita attorno alla Terra. Tale necessità derivava dal fatto che la Trans Venus Injection andava effettuata con il motore del terzo stadio ed il propellente in esso contenuto. Una volta completata la TVI con successo, il propellente residuo nel terzo stadio andava disperso nello spazio ed il terzo stadio stesso andava riconfigurato per supportare la vita degli astronauti. Fatto ciò, quasi 700 kilogrammi di materiale andavano spostati dall’ESM all’ormai “abitabile” S-IVB e la navicella avrebbe assunto la sua forma finale.
Dato che, dopo la TVI, l’equipaggio avrebbe avuto solo 66 minuti di tempo per scovare eventuali problemi e – nel caso – iniziare la manovra di aborto missione, più operazioni si potevano anticipare al periodo in orbita terrestre e meglio era. In caso di abort, il CSM si sarebbe staccato dal resto della navicella ed avrebbe utilizzato il propellente residuo per ritornare in orbita terrestre, dove i controllori del volo avrebbero studiato un’apposita finestra di rientro in atmosfera.
Nel caso tutto fosse andato secondo i piani, per il resto della missione, l’ESM sarebbe stato il centro di comando, l’S-IVB l’alloggio per l’equipaggio ed il Command Module sarebbe rimasto a disposizione in caso di emergenza.
La vita a bordo prevedeva che in ogni momento i tre membri dell’equipaggio si trovassero nell’ESM. Uno avrebbe occupato la stazione di comando, uno avrebbe svolto gli esperimenti scientifici ed uno avrebbe dormito, mangiato o si sarebbe lavato. L’ESM era infatti dotato di un solo sacco a pelo. Non era previsto alcun sistema di gravità artificiale e, come si può immaginare, almeno un astronauta avrebbe ricevuto l’addestramento necessario a svolgere piccoli interventi chirurgici d’emergenza.
Obiettivi scientifici
Gli obiettivi scientifici della missione si possono raccogliere in due grandi famiglie: quelli relativi allo studio di Venere, da effettuarsi in concomitanza con il flyby, e quelli relativi allo spazio profondo, che avrebbero occupato il resto del tempo.
Nella prima famiglia ricadevano principalmente:
- La misurazione della densità, temperatura e pressione atmosferica di Venere in relazione ad altitudine, latitudine e tempo
- La definizione della superficie venusiana e delle sue proprietà
- L’analisi della composizione chimica della bassa atmosfera e della superficie planetaria
- Lo studio del periodo di rotazione di Venere e delle anomalie del suo campo gravitazionale
- La raccolta di dati ionosferici come la riflettività radio, la densità di elettroni e le proprietà degli strati di nubi
Mentre, durante la lunga crociera interplanetaria, si prevedeva di:
- Misurare le radiazioni ultraviolette/infrarosse al di fuori dell’atmosfera terrestre, per aiutare nella determinazione della distribuzione spaziale dell’idrogeno
- Misurare le radiazioni ultraviolette/infrarosse/X dello spettro solare e monitorare l’attività solare
- Eseguire analisi radioastronomiche per investigare le emissioni radio dei pianeti, del Sole e di altre stelle
- Studiare sorgenti già note di raggi X ed identificarne di nuove
- Raccogliere dati sull’ambiente interplanetario tra la Terra e Venere, con focus particolare sul campo magnetico e sulla presenza di meteoroidi
- Studiare Mercurio, che due settimane dopo il flyby sarà in allineamento con Venere ad una distanza relativa di sole 0.3 AU, circa 45 milioni di kilometri.
Circa 1500 kilogrammi di carico utile sarebbero stati destinati a strumentazione scientifica, che un comitato avrebbe dovuto selezionare dalla lista seguente.
Sonda Atmosferica
Del peso totale di circa 225 kilogrammi, da rilasciare un giorno prima del flyby. Un sistema propulsivo autonomo a propellente solido l’avrebbe fatta rallentare, per farla scendere balisticamente verso Venere ed effettuare misurazioni direttamente dentro la sua atmosfera riguardo densità, pressione, temperatura e composizione chimica in funzione della quota. L’intero sistema avrebbe avuto le dimensioni di un cilindro di 1 x 2,5 metri.
Telescopio
Nonostante le nubi perenni avrebbero precluso la vista della superficie venusiana, un telescopio sarebbe stato utile a studiare la dinamica delle nubi e dell’atmosfera in generale. Osservazioni condotte a diverse lunghezze d’onda avrebbero permesso di determinare la composizione dell’atmosfera. Con un’apertura di 40 centimetri ed una lunghezza focale di 2 metri, nel punto di massimo avvicinamento a Venere avrebbe garantito una risoluzione di 11 metri. Accoppiata ad un film fotografico, avrebbe potuto scattare 10mila fotografie nelle 48 ore centrate attorno al flyby.
L’equipaggiamento per indagare anche nell’infrarosso, nell’ultravioletto e nei raggi X, compreso di tutti i sottosistemi, sarebbe pesato circa 550 kilogrammi. Uno strumento del genere sarebbe stato estremamente versatile, in quanto utilizzabile anche per osservare Mercurio, con una risoluzione spaziale, nel punto più vicino, pari a 44 miglia nautiche.
Interplanetary Environments Monitor
Anche noto come IEM, avrebbe contenuto una suite di sensori del peso di circa 25 kilogrammi in un contenitore cubico di 35 centimetri di lato. La strumentazione sarebbe stata composta da un magnetometro, un fotometro UV/X, rilevatori di micrometeoroidi, uno spettrometro per particelle a moderata ed alta energia, plasma di protoni e plasma di elettroni, una camera a ioni. Onde evitare interferenze con altri equipaggiamenti della navicella, sarebbe stato installato su un palo che esteso dalla navicella stessa, perpendicolare al piano solare equatoriale.
Sistemi di bordo
Una serie di equipaggiamenti avrebbero permesso alla navicella di supportare la vita di tre astronauti per oltre un anno. Vediamo brevemente i principali sistemi di bordo.
Protezione Dai Micrometeoroidi
I micrometeoroidi sono frammenti di asteroidi e comete, oppure detriti derivanti da impatti planetari, di dimensione variabile ma molto ridotta rispetto agli asteroidi. I danni statisticamente rilevanti sarebbero stati quelli generati da frammenti di massa compresa tra 1 centomillesimo di grammo ed 1 grammo. Questo è il range di oggetti più pericolosi in assoluto: più piccoli non provocano danni significativi, più grandi sono statisticamente più rari da incontrare.
Il modulo di comando non avrebbe richiesto protezioni aggiuntive, avendo una scocca già spessa e resistente a sufficienza. Il modulo di servizio avrebbe montato protezioni solo in corrispondenza dei serbatoi.
L’ESM, in quanto progettato da zero, avrebbe già avuto la dovuta protezione. L’S-IVB sarebbe stato invece appositamente modificato, oppure reso in grado di essere riparato all’occorrenza. La scelta dell’approccio migliore viene rimandata ad analisi successive più approfondite.
Protezione Dalle Radiazioni
Nonostante la missione si sarebbe svolta in un periodo di minimo solare, il perielio a 0.7 AU avrebbe richiesto schermature adeguate nel malaugurato caso di un evento solare. La sonda Mariner II – che nel 1962 aveva sorvolato per la prima volta Venere – aveva escluso la presenza di una fascia di radiazioni attorno a Venere, spostando le preoccupazioni su eventuali raggi cosmici di provenienza solare o galattica.
I Galactic Cosmic Rays sono nuclei atomici privi dei loro elettroni, con una componente minore di elettroni e raggi gamma. Si ritiene che in questo caso, la protezione data dallo strato esterno del mezzo sarebbe stata sufficiente a proteggere gli occupanti.
I Solar Cosmic Rays sono protoni e particelle alfa emesse con i solar flares, e rappresentano il pericolo maggiore, per i quali è necessario un rifugio che possa resistere svariati giorni, in questo caso lo stesso ESM. Gli astronauti sarebbero stati dotati dei dosimetri delle missioni Apollo.
Sistema Elettrico
Per il CSM, abitato solo nelle fasi iniziali del lancio e poco prima del rientro in atmosfera, si sarebbe ricorso alle batterie argento-zinco, tenute in carica dal sistema elettrico principale dell’ESM.
Per il sistema principale le alternative erano:
Generatore Termoelettrico a Radioisotopi ad “high temperature Brayton cycle”, che però avrebbe potuto non essere pronto all’uso per i primi anni ‘70.
Celle solari orientabili accoppiate a batterie secondarie. Ipotesi preferibile per affidabilità e semplicità costruttiva, che avrebbe richiesto una superficie totale di circa 160 metri quadrati.
Altre proposte prevedevano le fuel cells, scartate per peso ed ingombro dei relativi serbatoi, oppure reattori nucleari, il cui sviluppo era però ancora troppo preliminare al momento dello studio.
Navigazione, Guida e Controllo
Questi tre termini definiscono il sottoinsieme di sistemi di bordo (ma non solo), che hanno il compito di far seguire alla navicella il percorso desiderato, verificandone il corretto svolgimento e modificandolo di conseguenza quando subentrano perturbazioni di varia natura.
Questi tre termini si riferiscono rispettivamente alle tre domande:
- dove mi trovo?
- dove voglio andare?
- come ci arrivo?
Rispondere alla prima domanda equivale a conoscere posizione e velocità in ogni istante della traiettoria, con i relativi errori. Per la missione si sarebbero utilizzati due sistemi indipendenti e ridondanti, come per le missioni Apollo:
- Un sistema di tracciamento primario da Terra, costituito da una serie di RADAR in banda S. Avrebbe garantito un’accuratezza di pochi kilometri sulla distanza e di pochi centimetri al secondo sulla velocità.
- Una combinazione di misurazioni della piattaforma inerziale e di osservazioni con il sestante eseguite direttamente a bordo, prendendo come obiettivi punti noti come stelle o pianeti. Quanto misurato con il sestante sarebbe stato dato in pasto all’Apollo Guidance Computer, che avrebbe fornito in output i vettori posizione e velocità, con un’accuratezza due ordini di grandezza inferiore rispetto al sistema primario.
Quanto calcolato dagli algoritmi di guida sarebbe poi stato tradotto in comandi di accensione/spegnimento per alcuni elementi del sistema propulsivo, così da mantenere il controllo sulla traiettoria desiderata.
Sistema Propulsivo
Il sistema propulsivo era progettato per gestire la più critica delle emergenze: un aborto di missione a valle della Trans Venus Injection. In quel malaugurato caso, la vita dei tre astronauti sarebbe dipesa dai motori del Command and Service Module, che avrebbero generato un totale di 9.5 tonnellate di spinta.
Proprio al fine di soddisfare la capacità di un abort sulla strada per Venere, si era deciso di equipaggiare il Command and Service Module con due “Lunar Module Descent Engines”, ovvero due esemplari del motore montato sullo stadio di discesa del modulo lunare delle missioni Apollo.
Tali motori erano già certificati dal programma Apollo per accensioni non superiori a 730 secondi. Nel caso di abort, il sistema di controllo li avrebbe accesi entrambi per 300 secondi, oppure uno solo per il doppio del tempo nel caso di malfunzionamenti.
A completare il sistema propulsivo, anche 4 gruppi da 4 thruster per le manovre che avrebbero richiesto maggior precisione.
Sistema di controllo ambientale
I compiti principali di tale sistema consistevano nel controllare l’atmosfera all’interno della navicella, in termini di temperatura ed umidità, oltre alla gestione dell’acqua e dei rifiuti. Il tutto per un equipaggio di 3 persone per 400 giorni.
A guidare il dimensionamento del sistema, il requisito di sicurezza di dover pressurizzare sia l’S-IVB che l’ESM fino a tre volte, oltre a dover effettuare fino a cinque attività extraveicolari, naturalmente in caso di emergenza. Le EVA potevano essere richieste per ispezionare l’esterno della navicella a seguito di danneggiamenti subiti, ad esempio, da impatti con meteoroidi o per manutenzione straordinaria.
L’atmosfera era costituita da 70% ossigeno e 30% azoto a 0.34 atmosfere, con una temperatura di circa 24 gradi centigradi ed un’umidità relativa del 50%.
L’elemento più importante, nonché più pesante da portarsi dietro sarebbe stato senz’altro l’acqua. Assumendo circa 2.2 litri al giorno tra bere e mangiare, più circa 1.6 litri al giorno per igiene personale, si ottiene un totale di circa 4700 kilogrammi. Purtroppo, senza un sistema a ciclo chiuso di recupero dell’acqua, un sistema a ciclo aperto come quello appena descritto sarebbe stato troppo pesante per le capacità di lancio del Saturn V.
Si rese quindi necessario pensare ad un sistema di raccolta a ciclo chiuso. L’acqua di scarico sarebbe stata trattata tramite filtri e germicidi, l’umidità della cabina fatta condensare su delle piastre fredde e poi raccolta, le urine sarebbero state purificate. Con un sistema del genere, al lancio sarebbero stati necessari solo 226 kilogrammi di acqua per dare il via al ciclo, immagazzinati in due serbatoi distinti.
I rifiuti, stimati in circa 225 grammi a testa al giorno, sarebbero stati processati con germicida, seccati e immagazzinati. I gas prodotti sarebbero invece stati espulsi nello spazio.
Altro aspetto non secondario avrebbe riguardato la rimozione della CO2 prodotta dall’equipaggio. Si sarebbe passati da un sistema a cartucce usa e getta di LiOH, usato sulle missioni Apollo, ad un sistema rigenerativo nominato “Four-Bed Thermal Swing Molecular Sieve”, che avrebbe permesso di risparmiare oltre due tonnellate di peso di cartucce.
Il processo scelto prendeva il nome di Bosch e sarebbe stato il più semplice da implementare. L’anidride carbonica andava ridotta con idrogeno in una reazione che avrebbe dato acqua, che, elettrolizzata, avrebbe prodotto l’ossigeno richiesto.
La navicella sarebbe comunque stata equipaggiata con delle cartucce di LiOH identiche a quelle del programma Apollo, che avrebbero coperto alcuni giorni di emergenza, nel caso di manutenzione d’emergenza sul sistema principale.
Il Rientro Atmosferico
Prima di rimettere i piedi a Terra e riabbracciare le proprie famiglie, ai tre astronauti restava ancora un importante evento da superare: il rientro atmosferico dalla crociera interplanetaria.
La precisione richiesta per questa manovra doveva essere massima. Dopo un viaggio di 400 giorni nel Sistema Solare interno, il modulo di comando avrebbe dovuto imboccare un corridoio di rientro largo meno di 35 kilometri, viaggiando a 13.67 kilometri al secondo ad una quota 122 kilometri. Uscire dal corridoio di rientro avrebbe causato un “undershoot” oppure un “overshoot”. In entrambi i casi, morte certa.
L’undershoot si sarebbe verificato nel caso in cui la navicella avesse impattato con l’atmosfera con un angolo superiore a 7.61°, causando decelerazioni oltre i 10 g e la disintegrazione per effetto delle forze aerotermiche. L’overshoot, al contrario, si sarebbe verificato con un angolo inferiore a 5.92° ed avrebbe portato la navicella a “rimbalzare” contro l’atmosfera, prima di essere rispedita nello spazio profondo senza possibilità di salvezza per i suoi occupanti.
I calcoli dello studio preliminare mostravano che non sarebbero serviti sistemi di retropropulsione, ma sarebbe stato sufficiente irrobustire lo scudo termico del modulo di comando del programma Apollo con circa 200 kilogrammi di materiale ablativo aggiuntivo.
Conclusioni
Lo studio di fattibilità si concluse suggerendo una revisione totale e più approfondita di tutti gli aspetti esaminati, al fine di giungere ad una proposta di missione concreta, che potesse poi essere approvata e adeguatamente progettata.
I dimensionamenti di molti sistemi furono pesantemente influenzati dalla necessità di garantire un adeguato livello di sicurezza in caso di un abort di missione. I primi approfondimenti si sarebbero dovuti concentrare proprio sui requisiti di abort, con le conseguenze a cascata sui vari sottosistemi.
Dallo studio di fattibilità emerse anche come il Saturn V sarebbe decollato – utilizzando l’architettura preliminare proposta – con quasi due tonnellate di carico utile non utilizzato. Queste avrebbero dovuto essere sfruttate per aumentare l’affidabilità di alcuni sistemi tramite opportune ridondanze.
Il consiglio più importante fu sicuramente di eseguire due prove generali della missione. La prima immettendo sulla traiettoria prevista un satellite tipo Pegasus, al fine di raccogliere dati soprattutto sulle radiazioni e su possibili impatti con meteoroidi, così da costruire un campione statisticamente significativo sul quale dimensionare le schermature ed altri sistemi. La seconda, invece, con un equipaggio di tre persone in orbita attorno alla Terra per un anno, ad una quota di circa 46mila kilometri.
Nella trepidante attesa che l’Umanità torni ad esplorare in prima persona lo spazio profondo, non fa male buttare un occhio a tutte quelle idee del passato che “sarebbero potute essere”. Potrebbe nascerne qualche ispirazione utile da rispolverare in futuro.
Lo studio si può consultare liberamente qui.
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