Le galassie crescono ed evolvono. Fondono miliardi di stelle, innescano esplosioni di formazione stellare intensa, si scontrano con altre galassie, alimentano i buchi neri supermassicci nel loro centro per produrre quasar così luminosi da eclissare l’intera galassia ospite. Alcune di queste galassie si fondono e diventano enormi galassie ellittiche, che contengono buchi neri massicci miliardi di volte il nostro Sole.
Di recente, gli astronomi che utilizzano una serie di telescopi terrestri e spaziali, tra cui Gemini North alle Hawaii, hanno scoperto un duo strettamente legato di buchi neri supermassicci che si alimentavano attivamente: i quasar.
Segno distintivo di una coppia di galassie che si fondono, questi quasar rappresentano il primo rilevamento confermato di una coppia di buchi neri supermassicci nello stesso intorno galattico nell’epoca del mezzogiorno cosmico, un periodo di frenetica formazione stellare in un momento in cui l’Universo aveva solo 3 miliardi di anni.
Questa fusione rappresenta anche un sistema sul punto di diventare una gigantesca galassia ellittica.
Quasar così vicini non se ne erano mai visti
Gli astronomi sanno che l’Universo lontano dovrebbe essere pieno di coppie di buchi neri supermassicci incorporati all’interno di galassie in fusione. I primi indizi risalgono ai dati del telescopio spaziale Hubble, che ha rivelato coppie di puntini luminosi strettamente allineati nell’Universo primordiale.
Precedenti osservazioni hanno identificato questo tipo di sistemi nelle prime fasi di fusione, quando le due galassie potevano ancora essere considerate entità nettamente separate.
Tuttavia, questi nuovi risultati mostrano una coppia di quasar che brillano a distanza così ravvicinata, di soli 10.000 anni luce, che le loro galassie ospiti originali sono probabilmente sulla buona strada per diventare un’unica galassia ellittica gigante.
Cercare coppie di buchi neri supermassicci così vicini l’uno all’altro durante questa prima epoca è molto complesso. La sfida è che la maggior parte delle coppie di buchi neri sono troppo vicine per essere distinte individualmente. Per rilevare definitivamente questi sistemi, i due buchi neri supermassicci devono accrescersi attivamente e brillare come quasar contemporaneamente, condizioni estremamente rare. Statisticamente, per ogni 100 buchi neri supermassicci solo uno dovrebbe accrescersi attivamente in un dato momento.
La vera natura del sistema
Per verificare la vera natura del sistema, i ricercatori hanno utilizzato diversi strumenti.
- Il vasto database dell’osservatorio Gaia dell’ESA.
- Il Gemini Multi-Object Spectrograph (GMOS) e il GNIRS sul telescopio Gemini North dell’Osservatorio Gemini.
- Il WM Keck Observatory, il Karl G. Jansky Very Large Array della NSF e l’Osservatorio a raggi X Chandra della NASA.
I dati Gaia hanno suggerito che questo sistema presentava un’apparente “oscillazione”, il possibile risultato di cambiamenti sporadici nell’attività di un buco nero. GMOS e GNIRS hanno fornito al team misurazioni indipendenti della distanza dai quasar, confermando che i due oggetti erano entrambi quasar piuttosto che un allineamento casuale di un singolo quasar con una stella in primo piano.
Per confermare queste ipotesi sulla natura del sistema, era necessaria una serie di telescopi che coprissero lo spettro dai raggi X al radio. C’era infatti la possibilità, anche, che si trattasse di due immagini della stessa sorgente, moltiplicata per effetto del fenomeno di lente gravitazionale.
Indietro di 10 miliardi di anni
Poiché i telescopi scrutano nel lontano passato, questa coppia di quasar non esiste più. Negli ultimi 10 miliardi di anni, le loro galassie ospiti si sono probabilmente fuse in una gigantesca galassia ellittica, come quelle viste oggi nell’Universo locale. E i due quasar si sono fusi per diventare un gigantesco buco nero supermassiccio al centro.
Intanto, però, “Stiamo iniziando a svelare questa punta dell’iceberg della prima popolazione binaria di quasar” ha detto il coautore Xin Liu dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign. Questa, infatti, è l’unicità di questo studio: afferma che questa popolazione esiste, e che c’è un metodo per identificarla.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, è reperibile qui in versione pre-print.
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