In orbita terrestre bassa la new space economy vuol dire anche permettere a sempre più enti ed aziende l’accesso allo spazio, ad un prezzo sempre minore. Una delle aziende che negli ultimi anni ha permesso questo è Nanoracks, in particolare la divisione Europea. Quest’azienda sta ora collaborando alla creazione di un’intera stazione spaziale commerciale, chiamata Starlab.
Abbiamo posto alcune domande a Veronica La Regina, CEO di Nanoracks Europe, sui loro progetti e sulla visione che hanno di un mercato spaziale aperto e sempre più accessibile.
Ci può raccontare qualcosa della divisione europea di Nanoracks, di cui lei è alla guida?
Nanoracks Europa nasce a fine 2018 e diventa operativa ad aprile 2019. In quella circostanza era la prima apertura di Nanoracks verso l’Europa, con una presenza fisica di un team dedicato per integrarsi nell’ecosistema prima italiano, e poi europeo. Sappiamo tutti che dopo meno di un anno, nel 2020 è iniziato un periodo di pandemia che avrebbe dovuto da un lato spaventare l’ambizione di crescere.
In realtà, proprio perché la società era all’inizio, è stata una forma di opportunità, perché si è potuto iniziare a costi più contenuti: il fatto che si lavorasse in remoto ha portato a tagliare i costi di ufficio su una piccola impresa, e dedicare più attenzione alla selezione del team. Da subito, fu proprio durante questo periodo, a partire dal 1 aprile 2020, che io presi il ruolo da Direttore Commerciale ad Amministratore Unico. Non poche persone mi sconsigliavano di farlo, vista la contingenza di crisi del momento. In realtà io quello che dissi a me stessa è che era la condizione migliore per rischiare, perché stava rischiando il mondo intero.
Quello che io ho cercato di fare, insieme alla casa madre, quindi Nanoracks USA, è la cosiddetta democratizzazione di accesso allo spazio, cioè avere una strategia di vendita dei servizi di accesso allo spazio molto vicina a quello che è il bisogno del cliente. Si cerca cioè di fare un’analisi di qual è il bisogno di andare in orbita e di trovare qual è un prezzo di vendita vicino alle reali possibilità del cliente. Questo è particolarmente importante in una sfida del genere, perché tutti vogliono andare nello spazio e dovremmo trovare il modo per andarci, ma le capacità per andare in orbita sono ancora limitate.
Ci sono dimensioni da rispettare, volumi da rispettare, oltre a problemi di alimentazione, di comunicazione e di scambio dati. È un viaggio particolare quello nello spazio, perché ciò che va nello spazio e ritorna poi vale di più, lo vediamo dal collezionismo e nel cosiddetto processo di maturazione tecnologica. Quando una tecnologia o un materiale è provato nello spazio, se è resiliente e se funziona lì, al ritorno mi posso permettere di vendere quella cosa a un prezzo più alto.
Detto questo, abbiamo un po’ capito come funziona il mercato, quali sono i bisogni. Direi che ci sono tre grandi comunità che possiamo servire. Quella dell’education, quindi delle scuole, anche mettendo la parte curricolare delle università. Poi vi è quella scientifica, la sperimentazione in orbita di modelli scientifici sia dal lato delle scienze della vita, come per esempio i materiali, che da quello della dimostrazione tecnologica.
Oltre ad aver capito che ci sono queste tre grandi classi, abbiamo capito che si va nello spazio per due principali motivi. O perché ci si vuole qualificare come attori spaziali, quindi devo dimostrare che faccio cose adatte a funzionare e ad operare nello spazio, o perché cerco l’ambiente spaziale, che è un grande laboratorio multifattoriale dovuto alla presenza delle radiazioni cosmiche, dello stress di pressione dovuto al cambio di pressurizzazione, dello stress termico, lo stress del viaggio, l’esperienza di ipergravità durante il viaggio e di microgravità quando raggiungo l’orbita LEO. Tutti questi elementi ne fanno un grande laboratorio, che alcune volte rafforza una tecnologia in realtà più per usi terrestri che per usi spaziali.
Abbiamo avuto la fortuna di lavorare a bordo di programmi istituzionali, come Moonlight, che è un’iniziativa dell’ESA per dotare la comunità spaziale europea di un servizio di comunicazione e navigazione lunare, e l’iniziativa italiana di contribuzione al programma americano Artemis, con lo sviluppo di un habitat lunare di tipo abitato.
Nel primo programma ci siamo occupati d’identificare quali sono i siti e le possibilità per ospitare dei payload che siano diversi dall’obiettivo principale della missione. L’altro invece, nell’habitat umano abbiamo fatto uno studio per definire un Lunar Lab, un laboratorio lunare con l’idea di traslare quello che è il nostro heritage in orbita bassa terrestre, sulla superficie della Luna.
In merito alla prima parte che lei ci ha raccontato, di favorire, permettere, e anche venire incontro ai clienti per portare satelliti ed esperimenti in orbita, penso che uno degli esempi sicuramente più emblematici di questo concetto sia il modulo Bishop che si trova sulla stazione spaziale ed è, se non sbaglio, ancora l’unico modulo commerciale gestito da un’azienda esterna su tutta la Stazione Spaziale. Ci può raccontare un po’ di questo modulo, e anche di come poi traghetterà il tutto verso Starlab, un’intera stazione spaziale che state costruendo in Nanoracks?
Sostanzialmente, Bishop tradotto in italiano è l'”Alfiere”, l’alfiere degli scacchi che ha un modo di manovra in diagonale, perché Bishop vuole rappresentare una capacità di poter portare carichi vacanti in orbita, ma fornendo la possibilità di essere ospitati all’interno quando il Bishop è chiuso o all’esterno.
In questo modo i carichi possono transitare da un ambiente pressurizzato a quello non pressurizzato. Bishop risponde a delle esigenze che mancavano sulla stazione, perché vi era già un airlock piccolo, quello del modulo giapponese, per i soli carichi paganti, quindi per il cargo, oppure vi è l’airlock grande, ve ne sono due, per l’uscita degli astronauti. Quindi se un airlock è troppo piccolo non me ne faccio niente, se apro quello troppo grande aumento la probabilità di problemi e quindi metto a rischio anche l’utilizzo delle risorse per compensare questo momento di stress.
Quindi Bishop più che un modulo, è una capacità, cioè va oltre le definizioni di un carico pagante, perché arricchisce le infrastrutture con una camera in più, tant’è che quando è chiusa è uno spazio abbastanza grande da poter permettere dimostrazioni tecnologiche di bracci robotici telecomandati da Terra, come è stato quello di GITAI, una società giapponese. Questo prima non era possibile farlo all’interno della stazione, perché è abitata, ci sono gli astronauti, ci sono altri macchinari che si azionano e vanno operati in un certo modo.
A fornire capacità che arricchiscono l’infrastruttura spaziale di tipo commerciale non siamo gli unici, per obiettività di resoconto e di documentazione sappiamo che vi è l’iniziativa Bartolomeo di Airbus che presenta una serie di facilities per l’hosting di payload, e questo è un connubio interessante perché i payload di Bartolomeo che escono nello spazio, sono proprio quei payload che sono troppo grandi per l’airlock piccolo e troppo piccoli per l’airlock grande, quindi sono spesso oggetto del transito nel nostro airlock.
Bishop è anche particolarmente legato all’Italia, perché viene dallo sviluppo manifatturiero di Thales Alenia Space a Torino. Ed è stato proprio durante questo periodo che il top management maturò l’idea di aprire una filiale in Italia. Una filiale ma che in realtà, avendola dotata di una propria capacità di fare spazio su un segmento che nella casa madre non era presente, in realtà è proprio una società, con una certa identità.
Sicuramente Bishop ci ha fatto maturare la visione di gestire carichi più complessi, più grandi, e quindi di avvicinarci a quelle che sono le sfide di una stazione spaziale commerciale, però non è che non avendo il Bishop non avremmo avuto più la visione di fare una stazione. Avere la stazione commerciale è un po’ un’evoluzione del fatto di aver capito che determinati limiti a bordo della stazione spaziale, facente parte di un programma intergovernativo e che prevede una serie di limitazioni, ci ha fatto maturare l’idea di avere qualcosa di nostro, dove un po’ le regole di casa le fai te.
Il fatto di aver avuto una customer base e una diversificazione di payload per tipologia di applicazione, sostanzialmente ci ha portato da un po’ di tempo a reclamare l’idea di avere un pezzo di orbita in autonomo, di poter gestire l’accesso all’orbita in maniera autonoma. Questo lo puoi fare solo se l’infrastruttura è tua, quindi il disegno che inizialmente ha lanciato la NASA di aprile 2021, la cosiddetta Commercial LEO Destination, ci ha trovato molto in sintonia.
Qui siamo di fronte a uno scenario dove la NASA, o l’agenzia spaziale di riferimento, non compra più un’infrastruttura, quindi non fa più una call dicendo “voglio in orbita un asset fatto così e così”, ma chiede all’industria di presentare un’idea di progetto di che cosa potesse essere l’infrastruttura per la quale poi la NASA successivamente chiederà la fornitura di servizi. Quindi cambia completamente il business model dell’agenzia spaziale statunitense, e quindi l’ambizione di Nanoracks di dire va bene, allora salgo a bordo perché è molto vicino allo sviluppo imprenditoriale verso il quale voglio andare.
È stata fatta l’application, la proposta è stata dichiarata di successo, e adesso si gareggia per questo primo step che richiede la validazione della fattibilità tecnica dell’idea e la validazione del business model secondo criteri di sostenibilità. Solo a valle di questa selezione la NASA inizierà a fare il pre-booking dei servizi. E questo pre-booking dei servizi, con pagamento anticipato, darà un indotto finanziario, ci permetterà d’iniziare lo sviluppo fisico della stazione.
Quali crede saranno i clienti non governativi, quindi non le agenzie, che poi avranno principale accesso, o principali opportunità, a salire sulle stazioni spaziali in orbita terrestre bassa?
Sicuramente ci sarà una predominanza di attori che ad oggi non vediamo, proprio perché sono stati a lungo esclusi e si sono sentiti esclusi. C’è tutta quella parte di mercato non servita perché sono ancora ancorati all’idea di spazio che necessita di tanti soldi e di tanto tempo, che con il nostro business model da oltre dieci anni abbiamo in parte sfatato.
Quindi io penso che si andrà sempre di più nello spazio, ma non parliamo ancora di mercato di massa. C’è chi comprerà un viaggio spaziale per una causa nobilissima e chi lo comprerà perché vuole farsi una passeggiata. Secondo me si perderà questo requisito che ci deve essere una linea di meritocrazia per andare nello spazio, perché facciamo uso di risorse pubbliche e via dicendo, ma ci sarà la possibilità di avere maggiore libertà d’intraprendere l’idea di mandare qualcosa nello spazio per un fine che potrebbe anche non essere dato sapere.
C’è un servizio e uno lo paga. Quindi alla tua domanda esprimo sicuramente la fiducia che questa sarà la parte più interessante, più ispirante, anche perché dovrà essere fornita in modo che sia accessibile veramente, non soltanto in termini di prezzi e di condizioni, ma di tutta la preparazione per rendere il carico accessibile allo spazio, dovrà essere fatto in una maniera più esigente.
Detto molto chiaramente, questa è un’idea [Le stazioni spaziali commerciali ndr] che riesce se è globalmente appetibile e se porta a benefici a livello globale. Quando io disloco una parte della capacità industriale, io creo inevitabilmente un beneficio locale all’economia di quel paese. Ecco, io penso che se non si accompagna l’idea di vendita del servizio anche ad una globalità di presenza industriale, probabilmente la sostenibilità economica di tutto l’investimento potrebbe essere a rischio.
In merito a quello che ci raccontava di quello che fate qui in Europa, un’ultima domanda che volevo farle riguarda i giovani che sono attualmente in fase di percorso di studi e vedono questo fermento nel settore spaziale ma non riescono bene a capire quale potrebbe essere il percorso migliore per entrare nel settore spaziale. Cosa si sente di consigliare ad una ragazza o un ragazzo che è incerto sul percorso ma vuole entrare nel settore spaziale?
Sicuramente oggigiorno ci sono opportunità di sensibilizzarsi allo spazio molto più aperte e accessibili. Ci sono iniziative di summer school e di programmi spaziali. Per esempio, noi abbiamo una scheda elettronica con 12 sensori 2.0 che permette di programmare la scheda a Terra e la stessa scheda sulla stazione spaziale. Quindi sicuramente consiglio di documentarsi, aprirsi, partecipare, ci sono tante iniziative di outreach a livello di presenze presso musei, centri tecnologici e via dicendo.
Questo secondo me lo si fa non solo perché le notizie giungono ai ragazzi, ma anche perché i ragazzi abbiano un po’ d’intraprendenza nel cercarle. Quindi sicuramente sviluppare fin da subito una capacità di pensiero a 360 gradi, perché lo spazio penso sia uno degli ambiti di lavoro con maggiore intensità di richieste multidisciplinari, un ingegnere e basta non basta, un giurista e basta non basta.
Ogni professione deve avere una duttilità da sfruttare, proprio per contenere i rischi che si hanno nell’implementare una missione spaziale. C’è un motto che noi rispettiamo a livello globale in tutto il team Nanoracks: nello spazio niente è facile. Lo spazio può essere più complesso o meno complesso, ma è bandito dal nostro vocabolario dire che lo spazio è facile.
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