Blue Origin ha presentato ieri, 10 febbraio, un aggiornamento del suo progetto Blue Alchemist, forse uno dei più ambiziosi e interessanti. Attraverso un processo prima di fusione dei materiali che simulano la regolite, e poi di elettrolisi, Blue Alchemist divide i vari elementi che compongono la polvere lunare per creare sottoprodotti: in particolare silicio ma anche ferro, alluminio e ossigeno.
Sulla Luna sarà necessario produrre tutta l’energia che ci servirà per sopravvivere sulla superficie, e lo potremo fare in due soli modi: convertendo la luce del Sole in energia elettrica con pannelli solari, e con microreattori a fissione nucleare. Blue Origin, con questa tecnologia, sta dimostrando quanto la regolite lunare sarà un materiale versatile e fondamentale per l’esplorazione.
Il sistema Blue Alchemist funziona innanzitutto producendo una regolite simulata, dato che attualmente sulla Terra non ci sono quantità di terreno lunare sufficienti da “investire” in questi test. La regolite simulata di Blue Origin è stata prodotta facendo attenzione alla variabilità chimica e di minerali, che cambia in base alla zona lunare in cui viene raccolta. Questo garantisce che il materiale di partenza sia il più realistico possibile e quindi la tecnologia il più affidabile possibile per essere poi scalata in condizioni reali, cioè sulla Luna.
Il funzionamento di Blue Alchemist
Il reattore Blue Alchemist prima fonde la regolite, e poi la sottopone ad elettrolisi, cioè al passaggio di corrente attraverso il materiale fuso, a più di 1600 C°. Attraverso questa operazione, e grazie alla geometria brevettata da Blue Origin del reattore, prima viene estratto il ferro, poi il silicio e infine l’alluminio.
L’ossigeno viene invece separato come un sottoprodotto, che risulta comunque una delle risorse più importanti della regolite, usato in futuro per produrre propellente per i razzi direttamente sulla Luna e per far sopravvivere gli astronauti. Nella gif seguente si vedono le bolle di ossigeno mentre si separano dai metalli in uno degli esperimenti di Blue Origin. Questo sistema riesce quindi ad estrarre tutte le componenti utili dalla regolite, diventando potenzialmente lo strumento definitivo per lo sfruttamento della risorsa lunare più comune e utile.
Con questo sistema il silicio prodotto è puro al 99,999%, un valore necessario per usarlo nella produzione di pannelli solari. Inoltre, dai sottoprodotti della regolite fusa viene prodotto un vetro protettivo per le celle, che ne garantisce una sopravvivenza sulla Luna di almeno un decennio.
Questa tecnologia, per quanto già tecnicamente reale, avrà bisogno di aggiornamenti e diverse diminuzioni di scala prima di essere veramente utilizzata sulla Luna. Questo prototipo dimostra però come Blue Origin stia puntando molto sul settore dello sfruttamento delle risorse in situ sulla Luna.
Un processo “green”, dalle ricadute potenziali enormi
Questa tecnologia, per funzionare sulla Luna, deve essere pensata e sviluppata senza il bisogno di aggiunte. Sulla Terra la produzione e purificazione di Silicio ad esempio, è un processo che richiede grandi quantità di acqua e con alte emissioni di carbonio. Blue Alchemist non richiede acqua per funzionare e non produce emissioni di carbonio o elementi tossici.
Potenzialmente quindi, le ricadute anche terrestri di questa tecnologia non sono banali. Ovviamente i costi, accettabili per delle missioni lunari ma non per applicazioni terrestri, ridimensionano le potenziali ricadute sulle catene di approvvigionamento attuali.
Per quanto riguarda la produzione sulla Luna, i passaggi successivi di Blue Origin sono di portare Blue Alchemist a diventare un sistema autonomo, che all’inserimento di regolite produca celle solari complete in modo automatizzato, ma non solo. Data la separazione di alluminio e ossigeno, in particolare, l’idea è quella di produrre anche cavi per il trasferimento di energia elettrica e immagazzinare l’ossigeno per il propellente. Una vera e propria catena di produzione automatizzata dalla materia prima al prodotto finito…sulla Luna.
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