Sistema solare
| On 2 anni ago

BepiColombo e Solar Orbiter forniscono nuovi indizi sulla magnetosfera di Venere

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  • Nell’agosto 2021 le missioni BepiColombo e Solar Orbiter hanno sorvolato Venere a un solo giorno di distanza l’una dall’altra.
  • I dati congiunti hanno permesso di osservare il pianeta da due diversi punti di vista nello spazio e di ottenere informazioni molto importanti sulla magnetosfera venusiana.
  • Si è scoperto che la magnetosfera, indotta dal vento solare, fornisce una barriera stabile per il pianeta in grado di proteggere l’atmosfera di Venere.

Nell’agosto 2021 due diversi veicoli spaziali hanno sorvolato Venere a un solo giorno di distanza l’uno dall’altro. Hanno inviato i dati catalogati quasi contemporaneamente, da otto sensori e due punti di osservazione differenti nello spazio. In questo modo le missioni hanno permesso una visione unica di come il pianeta sia in grado di mantenere la sua densa atmosfera senza la protezione di un campo magnetico globale.

Le missioni in questione solo la BepiColombo, di ESA e JAXA, in viaggio per studiare Mercurio, e il Solar Orbiter di ESA e NASA, che sta osservando il Sole da diverse prospettive. Entrambi i veicoli hanno sfruttato una serie di assist gravitazionali da Venere che li aiutassero nel corso del loro percorso previsto.

La debole magnetosfera indotta di Venere

Venere, a differenza della Terra, non genera un campo magnetico nel suo nucleo. Tuttavia, a causa dell’interazione con il vento solare, un flusso di particelle cariche emesse dal Sole, attorno al pianeta viene creata una debole magnetosfera “indotta”.

La magnetosfera venusiana ha la forma di una sorta di cometa, con Venere come nucleo, e costituisce una vera e propria bolla magnetica. Attorno a questa bolla, il vento solare viene rallentato, riscaldato e deviato, in una regione definita guaina magnetica. Dalla sua posizione davanti a Venere, il Solar Orbiter ha catturato la scia del vento solare, che appariva in condizioni molto stabili.

Il sorvolo di BepiColombo

BepiColombo invece, durante il sorvolo, è volato lungo la lunga coda della guaina magnetica ed è emerso nelle regioni magnetiche più vicine al Sole. Si è trattato di una rara opportunità per indagare la regione di stagnazione (stagnation region nell’immagine qui sotto), un’area nella zona più vicina al pianeta della magnetosfera dove si osservano alcuni dei maggiori effetti dell’interazione tra Venere e il vento solare.

La convergenza del veicolo spaziale BepiColombo e Solar Orbiter su Venere nell’agosto 2021 è stata una rara opportunità per indagare su un’area della magnetosfera venusiana dove si osservano alcuni dei più grandi effetti dell’interazione tra Venere e il vento solare. Credits: CC BY-Nc-SA 4.0 – Thibaut Roger/Europlanet 2024 RI

I dati raccolti hanno fornito la prima prova sperimentale che le particelle cariche in questa regione sono rallentate in modo significativo dalle interazioni tra il vento solare e il pianeta. Inoltre, hanno confermato che la regione di stagnazione si estende per una distanza inaspettatamente grande, pari a 1.900 chilometri sopra la superficie venusiana.

Una vera e propria barriera protettrice

Le osservazioni hanno anche mostrato che la magnetosfera indotta fornisce una barriera stabile, in grado di proteggere l’atmosfera di Venere dall’erosione del vento solare. Questa protezione rimane robusta anche durante il minimo dell’attività solare, quando minori emissioni ultraviolette dal Sole riducono la forza delle correnti che generano la magnetosfera indotta.

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La scoperta, contraria a precedenti previsioni, getta nuova luce sulla connessione tra campi magnetici e perdite atmosferiche dovute al vento solare. Inoltre, “ha implicazioni per comprendere l’abitabilità degli esopianeti senza campi magnetici generati internamente” come ha affermato il coautore Sae Aizawa, dell’Institute of Space and Astronautical Science (ISAS) della JAXA.

Senz’altro, dopo una scoperta come questa, gli scienziati hanno un’ulteriore conferma di quanto possa essere importante l’accensione dei sensori dei veicoli spaziali durante i sorvoli planetari.

Lo studio, pubblicato su Nature Communications, è reperibile qui.

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