Durante i secoli bui dell‘Universo primordiale solo il gas neutro riempiva il cosmo, senza alcuna fonte di luce. Con l’avvento delle prime stelle e galassie, circa 100 milioni di anni dopo, quel gas è stato nuovamente ionizzato dalla radiazione ultravioletta (UV) delle stelle. Questa era comunemente conosciuta come alba cosmica”, o anche detta epoca della reionizzazione.
Un team internazionale di astronomi guidato da Sarah Bosman del Max Planck Institute for Astronomy (MPIA), ha cronometrato con precisione la fine dell’epoca della reionizzazione dell’idrogeno gassoso neutro. Secondo i calcoli, essa sarebbe avvenuta a circa 1,1 miliardi di anni dopo il Big Bang. Il nuovo risultato risolve un dibattito durato due decenni e segue dalle firme di radiazione di 67 quasar con impronte dell’idrogeno gassoso che la luce ha attraversato prima di raggiungere la Terra. Individuare la fine dell’alba cosmica aiuterà a identificare le fonti ionizzanti: le prime stelle e galassie.
Studiare l’alba cosmica dalle linee spettrali dei quasar
Per comprendere il momento in cui il giovane Universo era completamente ionizzato, Bosman e il suo team hanno analizzato la radiazione proveniente da 67 quasar. Si tratta di dischi luminosi di gas caldo che circondano i massicci buchi neri centrali in lontane galassie attive. Osservando lo spettro elettromagnetico di quasar, gli astronomi selezionano le cosiddette linee di assorbimento.
Esse sono causate dall’idrogeno gassoso neutro, che assorbe parte della radiazione lungo il suo viaggio dalla sorgente al telescopio sulla Terra. Gli spettri di quei 67 quasar sono di una qualità senza precedenti, che è stata cruciale per il successo di questo studio.
Il metodo prevede l’osservazione di una linea spettrale equivalente a una lunghezza d’onda di 121,6 nanometri (un nanometro è un miliardesimo di metro). Questa lunghezza d’onda appartiene alla gamma UV ed è la più forte linea spettrale dell’idrogeno. Tuttavia, l’espansione cosmica sposta lo spettro del quasar a lunghezze d’onda più lunghe quanto più la luce viaggia. Pertanto, lo spostamento verso il rosso (redshift) della linea di assorbimento UV osservata può essere tradotto nella distanza della sorgente dalla Terra.
La luce dei quasar analizzati, attraversa poi molte nubi d’idrogeno a diverse distanze lungo il suo percorso. Ognuna di queste nubi lascia la sua impronta a piccoli spostamenti verso il rosso dalla gamma UV negli spettri elettromagnetici. L’analisi del cambiamento nella trasmissione per linea spostata verso il rosso dovrebbe fornire il tempo o la distanza in cui l’idrogeno gassoso è stato completamente ionizzato.
La fine tardiva dell’alba cosmica
La durata dell’alba cosmica determina la natura e la vita media delle sorgenti presenti nell’Universo in quel periodo. Frederick Davies, anche lui astronomo MPIA e coautore dell’articolo, commenta:
Fino a pochi anni fa, l’opinione prevalente era che la reionizzazione fosse completata quasi 200 milioni di anni prima. Qui ora abbiamo la prova più forte che il processo sia terminato molto più tardi. Durante un’epoca cosmica più facilmente osservabile dalle strutture di osservazione dell’attuale generazione. Questa correzione temporale può apparire marginale considerando i miliardi di anni trascorsi dal Big Bang. Tuttavia, alcune centinaia di milioni di anni in più furono sufficienti per produrre diverse dozzine di generazioni stellari nella prima evoluzione cosmica.
Gli astronomi hanno applicato un modello fisico che riproduce le variazioni misurate in un’epoca molto successiva, quando il gas intergalattico era già completamente ionizzato. Quando hanno confrontato il modello con i loro risultati, hanno scoperto una deviazione a una lunghezza d’onda in cui la linea di 121,6 nanometri è stata spostata di un fattore di 5,3 volte. Ciò corrisponde a un’età per l’alba cosmica di 1,1 miliardi di anni dopo il Big Bang.
Il futuro è luminoso: cosa vedremo con l’ELT e il JWST
L’approccio indiretto utilizzato dal team è attualmente l’unico modo per caratterizzare gli oggetti che hanno guidato il processo di reionizzazione. Osservare direttamente quelle prime stelle e galassie va oltre le capacità dei nostri telescopi, troppo deboli per ottenere dati utili in un ragionevole lasso di tempo.
Anche le strutture di nuova generazione, come l’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO o il James Webb Space Telescope potrebbero avere difficoltà con un compito del genere. Tuttavia, Davies afferma: “Questo nuovo set di dati fornisce un punto di riferimento cruciale rispetto al quale le simulazioni numeriche del primo miliardo di anni dell’Universo saranno testate negli anni a venire”.
I ricercatori intendono espandere il lavoro portato a termine a tempi ancora precedenti, verso il punto medio del processo di reionizzazione nell’Universo primordiale. Sicuramente, anche se con qualche difficoltà, i nuovi strumenti ci aiuteranno a caratterizzare le sorgenti ionizzanti e le primissime generazioni di stelle.
Lo studio completo di Bosman e colleghi, pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è disponibile qui.
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