In questo secondo articolo dedicato ad approfondire il sistema di protezione termica (TPS o Thermal Protection System in inglese) analizzeremo alcuni fra i sistemi più comuni: i sistemi passivi e semi passivi. Cliccando qui si può leggere il primo articolo, della guida completa ai sistemi di protezione termica dei veicoli spaziali.
Come il nome suggerisce, questi sistemi operano una rimozione del calore passiva, ovvero si limitano ad assorbire ed eventualmente disperdere per radiazione il calore generato in fase di rientro, senza l’ausilio di agenti attivi come fluidi di raffreddamento. I sistemi passivi sono, in principio, i più semplici da realizzare e sono stati quindi i primi ad essere utilizzati con successo.
Ciononostante presentano anche degli svantaggi che ne limitano le applicazioni, come si vedrà in seguito. I sistemi passivi sono: pozzi di calore (Heat Sinks), strutture calde (Hot Structures), strutture isolanti (Insulated Structures).
Sono sistemi di rivestimento che puntano ad assorbire quanto più calore possibile al loro interno, evitando che questo raggiunga e danneggi le parti strutturali del veicolo. I materiali da usare per i pozzi di calore devono avere elevato calore specifico, un valore che indica l’energia necessaria per far aumentare la temperatura di un materiale, e alta resistenza a temperature elevate, cioè ad esempio non devono fondere con facilità. Oltre a ciò, è desiderabile che siano anche leggeri, resistenti all’ossidazione e che abbiano un ridotto coefficiente di espansione termica.
Questi requisiti restringono la rosa dei candidati ad una manciata di materiali utilizzabili: berillio, rame, grafite (rivestita per evitare la vaporizzazione) e Inconel X (una superlega a base di nichel-cromo sviluppata dalla Special Metals Corporation). Il berillio e la grafite sono solitamente impiegati per la punta conica (nosecone) di razzi ipersonici, mentre l’Inconel-X 750 è stato usato nell’X-15, velivolo in grado di raggiungere Mach 6.7 tramite uno scramjet. Inoltre, i pozzi di calore sono stati usati anche per le capsule Mark1 e Mark2.
I sistemi a pozzo di calore sono adatti a velocità relativamente basse (alto supersonico o basso ipersonico) e non possono sopportare alti flussi di calore per tempi prolungati, rendendoli quindi poco affidabili per il rientro in atmosfera di capsule con equipaggio.
Questi sistemi sfruttano materiali in grado di assorbire molto calore e al tempo stesso di riemetterlo per irraggiamento sotto forma di radiazione termica, ovvero materiali dotati di alta emissività. La possibilità di dissipare calore rende questi sistemi adatti all’uso prolungato nel tempo, purché non si arrivi ad una eccessiva temperatura di equilibrio tale da danneggiare i materiali che compongono la struttura. Questi sistemi si usano sia in campo aeronautico, come per il Blackbird (SR-71), sia per alcune parti di veicoli da rientro come superfici di controllo e bordi d’attacco. I materiali usati per realizzare queste strutture sono principalmente compositi a matrice metallica (Metal Matrix Composites – MMC) o ceramica (CMC).
Ad esempio, lo Space Shuttle si serviva di piastrelle in RCC (Reinforced Carbon-carbon) per proteggere i bordi d’attacco delle ali e il nosecone. Negli ultimi anni sono stati testati materiali ceramici come gli UHTC (Ultra-High Temperature Ceramics), in grado di resistere a temperature elevate e dotati di buona conducibilità termica ma vulnerabili all’ossidazione e poco resistenti a frattura, e i più recenti UHTCMC (Ultra-High Temperature Ceramic Matrix Composites), materiali compositi che cercano di limitare gli svantaggi degli UHTC.
In particolare, la ricerca sugli UHTCMC è stata portata avanti a livello europeo nell’ambito del progetto C³HARME tra il 2016 e il 2020. I materiali UHTCMC dovrebbero essere più affidabili delle loro controparti a singola fase, permettendo il riutilizzo delle stesse componenti del TPS per vari lanci e rientri in atmosfera, andando anche a tagliare i costi di produzione e di utilizzo delle missioni.
Questi sistemi sfruttano materiali con bassa conducibilità termica che vengono usati come rivestimento in modo da schermare la struttura sottostante, impedendo al calore di raggiungerla. Solitamente sono composti da più strati. Quello esterno è incaricato di riflettere o riemettere per radiazione una buona parte del calore assorbito mentre quelli interni svolgono il vero e proprio lavoro di isolante. Questo compito è solitamente svolto sia da materiali ceramici e compositi che dal vuoto, il quale presenta il doppio vantaggio di ridurre sia la conduzione di calore e che la densità della struttura.
Negli anni sono stati sviluppati moltissimi materiali che potessero fungere da isolanti, specialmente a partire dal programma Shuttle [1], e ancora oggi la ricerca è molto attiva. L’obbiettivo resta quello di produrre materiali con proprietà termiche e meccaniche migliori e al tempo stesso più leggeri, più duraturi e meno complessi da installare e/o manutenere.
Uno di questi materiali, sviluppato recentemente da NASA Ames, è il TUFROC (Toughened Uni-piece Fibrous Reinforced Oxidation-resistant Composite), molto leggero (0.4g/cm3) e in grado di resistere a temperature fino a 2000K, che ne permetterebbero l’impiego per proteggere parti sensibili come i bordi d’attacco delle ali e il nosecone di veicoli come lo Shuttle.
Il TPS dello Space Shuttle era formato da sistemi passivi: come si vede nella figura poco sotto. Vari tipi di protezioni isolanti erano usate in punti diversi della superficie in base ai carichi termici attesi. Come già anticipato, il nosecone e il bordo d’attacco delle ali prevedevano sistemi di tipo “hot structure”. Il TPS dell’Orbiter ha rappresentato un aspetto critico del progetto.
Se da un lato ha sostanzialmente garantito una buona protezione per la navetta, dall’altro ha anche creato alla NASA non pochi problemi che si sono tradotti sia in aumenti dei costi del programma sia in perdite di vite umane nel caso del disastro del disastro del Columbia nel 2003.
Nei sistemi semi-passivi la rimozione del calore avviene in maniera attiva, tuttavia tali sistemi sono chiusi e non necessitano del supporto di altri sottosistemi per poter funzionare. In principio sono quindi più complessi dei sistemi passivi, ma hanno comunque trovato vasto impiego nei veicoli da rientro atmosferico. Tali sistemi sono di due tipologie: tubi di calore (Heat Pipes) e superfici ablative (Ablative Surfaces).
Questa tipologia di sistemi semi-passivi sfrutta un fluido di lavoro sigillato all’interno di piccoli condotti al di sotto della superficie da raffreddare. Nel suo ciclo, il fluido subisce solitamente un doppio passaggio di stato. Esso infatti passa da liquido a vapore nel momento in cui raffredda la zona calda della superficie esterna. Il vapore viene poi convogliato verso una zona più fredda del veicolo alla quale cede parte del suo calore condensando nuovamente. A questo punto il liquido viene spinto nuovamente tramite una struttura capillare verso le zone calde e il ciclo ricomincia. In ambito spaziale, l’energia che permette al fluido di lavoro di compiere il suo ciclo è data dal calore che si sviluppa sulla superficie stessa del veicolo e che determina l’evaporazione del fluido.
La pressione nel vapore aumenta, generando un gradiente che spinge il liquido dalla zona fredda a quella calda. In principio i tubi di calore presentano diversi aspetti positivi: il passaggio di fase liquido-vapore permette di rimuove molto calore mantenendo al tempo stesso la temperatura del fluido pressoché costante (calore latente) e presenta anche tempi di risposta molto bassi. Inoltre, scegliendo adeguatamente il fluido, si possono coprire vari range operativi. Per le applicazioni al TPS, però, questi sistemi hanno dimostrato sperimentalmente di soffrire di diversi inconvenienti che limitano a loro capacità di protezione e non li rendono affidabili. Infatti, se i flussi termici sono troppo elevati, si arriva alla condizione di dry-out nella quale tutto il fluido è evaporato, e si possono formare zone con temperature tali da danneggiare i condotti.
Le cause di questo problema sono diverse, come il raggiungimento di velocità soniche o l’ebollizione del vapore, oppure il raggiungimento del limite di capillarità della struttura [2]. Per questo motivo, in ambito spaziale, tali sistemi non sono usati per rimuovere il calore generato durante il rientro atmosferico, ma vengono impiegati in altri ambiti, come il controllo termico a bordo di satelliti.
Anche nel caso delle superfici ablative si sfrutta un passaggio di fase per raffreddare le parti del veicolo esposte ai flussi di calore più intensi. In questo caso è il materiale di rivestimento che fonde o si vaporizza assorbendo calore latente prima di staccarsi dal resto del veicolo. Diversi materiali sono stati usati per realizzare questo tipo di TPS. Tra i più versatili ci sono i materiali a base polimerica che forniscono buona resistenza al calore e bassa densità. Anche i compositi carbonio-carbonio e in grafite si sono rivelati promettenti grazie alla loro elevata capacità termica ed energia di vaporizzazione, oltre che alla bassa densità e alle buone caratteristiche termiche e meccaniche.
I TPS a base di superfici ablative hanno avuto grande successo nella progettazione di veicoli per il rientro atmosferico. Sono stati infatti utilizzati dalla NASA sin dalle missioni Mercury, Gemini e Apollo [3] per riportare gli astronauti sani e salvi sulla terra, con le prime due missioni usate come banchi di prova per lo sviluppo del TPS delle capsule Apollo.
L’uso di scudi termici ablativi si rende necessario anche per l’ingresso nell’atmosfera degli altri pianeti del sistema solare. Ad esempio, sebbene la sua atmosfera sia molto meno densa di quella terrestre, anche l’atterraggio su Marte richiede l’utilizzo di uno scudo termico di tipo ablativo, sottoposto però a sollecitazioni molto ridotte rispetto al caso terrestre. Situazione opposta si verifica, invece, nel caso di ingresso nelle atmosfere gioviana e venusiana, dove pressione, densità e quindi flussi di calore sono molto più elevati, richiedendo uno scudo termico ablativo più resistente. Ovviamente per ogni missione si deve scegliere il materiale più adatto a realizzare lo scudo.
La selezione viene fatta innanzitutto basandosi sui parametri dell’atmosfera che il veicolo si troverà ad attraversare, permettendo anche di determinare la migliore geometria dello scudo stesso. Quindi si cerca di riprodurre in sede sperimentale, ad esempio nelle camere di prova ad arcogetto, delle condizioni più simili possibile a quelle attese durante il volo.
In questa fase anche le simulazioni fatte al computer, che diventano sempre più affidabili grazie ai progressi fatti con il passare degli anni, sono di aiuto per lo sviluppo dello scudo. Infine, qualora possibile (solo per il rientro a terra), si effettuano prove di volo. Tra i vari materiali sviluppati dal NASA Ames Research Center vi è il PICA (Phenolic-Impregnated Carbon Ablator), usato per la capsula Sturdust e per il Mars Science Laboratory. Due varianti migliorate, PICA-X e PICA-3, sono stati sviluppati e impiegati da SpaceX per le capsule Dragon e Crew Dragon.
Nonostante il grande successo di questa tipologia di TPS, gli scudi termici ablativi presentano anche degli svantaggi. Primo fra tutti il fatto che non sono riutilizzabili e dunque lo scudo va sostituito nel momento in tra una missione e l’altra, portando ad un aumento dei costi. Inoltre, a seguito del processo ablativo, la superficie esterna del veicolo non rimane liscia, ma presenta zone con rugosità e discontinuità come buchi e “scalini”.
Queste irregolarità hanno grande influenza dal punto di vista aerodinamico in quanto possono indurre la transizione dello strato limite (il flusso di aria più vicino alla superficie del veicolo), che può notevolmente incrementare la quantità di calore trasferita alla navetta. Infine rimane il problema del peso: visto che lo scudo non ha scopi strutturali, di fatto ogni suo kilogrammo in più toglie carico utile al veicolo.
La guida completa al sistema di protezione termica di un mezzo spaziale è una guida ideata e scritta da Giuseppe Chiapparino.
Qui si può leggere il primo articolo di questa guida.
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[1]: per approfondimenti: F.I. Hurwitz, Thermal Protection Systems: Encyclopedia of Aerospace Engineering, NASA Glenn Research Center, John Wiley & Sons, Ltd., Cleveland OH, 2010
[2]: Tesi di dottorato dove viene trattato l’argomento molto nel dettaglio.
[3]: Ablators – From Apollo to Future Missions to Moon, Mars and Beyond