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| On 2 anni ago

La storia dei satelliti Tethered. Un’idea italiana innovativa e un po’ folle finita nel dimenticatoio

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Nella storia dell’esplorazione spaziale ci sono state numerosissime idee ingegneristiche che sono nate sulla sottile linea che separa l’innovazione dalla fantascienza. Anzi, ne nascono di nuove ogni giorno. Poche di queste, tuttavia, si possono dire tentate, ancora meno realizzate, e forse solo una si può definire inventata in Italia e dallo sviluppo italo-americano.

Il secondo articolo dedicato a questi satelliti, con maggiori dettagli sulla fisica attraverso cui funzionano, si trova cliccando qui: Come funziona un satellite thetered? Tecnologia e prospettive future.

Il “Satellite al guinzaglio” o “satellite a filo”, in inglese Tethered Satellite, ipotizzato per la prima volta nel 1972, è ancora oggi una tecnologia estremamente innovativa, non esplorata a dovere nonostante la sua effettiva realizzazione tra gli anni Ottanta e Novanta. Questa tecnologia è lontana dai normali satelliti che siamo abituati a vedere rappresentati e fotografati. Si tratta di un satellite costituito da due masse, una notevolmente più grande dell’altra e collegate solo da un cavo metallico di lunghezza prevista tra i 20 e gli addirittura 100 chilometri. Nello sviluppo attuato venticinque anni fa, la massa più grande era niente meno che lo Shuttle.

Le possibilità di ricerca scientifica con questa configurazione sono ancora ad oggi notevoli e in passato erano straordinarie. Non era cosa da poco, negli anni ’70, poter disporre di un satellite in grado di raccogliere dati contemporaneamente in zone con diversa intensità di campo magnetico e gravitazionale, in zone dell’ambiente spaziale ancora per la maggior parte ignote.

Oltretutto, il satellite poteva essere “calato” in zone particolari dell’alta atmosfera, come le fasce di Van Allen, a partire da un’orbita più facile da raggiungere e più sicura. A spingere la ricerca fu anche la possibilità di sviluppare la cosiddetta “propulsione a cavo”: un modo economico e green per deorbitare satelliti, metterli in orbita o spostarli tra le orbite. Facciamo ora un passo indietro, approfondendo nel dettaglio la storia e la nascita di questi satelliti.

La nascita dell’idea

Mario Grossi

In ambienti dinamici come quelli dell’esplorazione spaziale è spesso difficile identificare un singolo e primo inventore di una tecnologia. La prima persona a cui venne l’idea di utilizzare dei cavi nello spazio per reggere le strutture fu Kostantin Tsiolkovski, ricordato principalmente per aver ricavato l’equazione del razzo, fondamentale per i viaggi spaziali. Inoltre, fu il primo a costruire una galleria del vento, a studiare l’effetto della gravità sugli organismi viventi e a ipotizzare le conseguenze biologiche in assenza di peso.

Fu anche il primo tanto visionario da ipotizzare la creazione di un ascensore orbitale, idea tuttora irrealizzabile. Se ne rese conto anche lui nel 1895 proponendo in alternativa la costruzione di un osservatorio legato al suolo da una catena; non un granché meglio sotto l’aspetto della realizzabilità ma comunque di grande ispirazione.

Ispirazione che trovò una prima messa in opera nel 1966. La missione Gemini 11 fu in grado di svolgere un cavo di trenta metri per stabilizzare un piccolo payload tramite una rotazione; fu un progetto pionieristico, ma più finalizzato al calcolo di una gravità generata da rotazione piuttosto che ad uno studio del sistema di filo, che appunto aveva delle dimensioni davvero ridotte.

ANNUNCIO

Il vero inizio per la tecnologia “a filo” avvenne nel 1972 per ispirazione di Mario Grossi, ingegnere originario della campagna intorno a Grosseto, nato nel 1925. Era un esperto di onde radio e aveva già partecipato a diverse missioni della NASA, dopo che si era trasferito a Cambridge, Massachussets. Nei primi anni Sessanta, collaborò allo sviluppo di due satelliti gemelli, gli OV-4, per l’esplorazione della Ionosfera, successivamente per la costruzione di Viking 2, primo esploratore di Marte e infine per il primo volo congiunto Apollo-Sojuz.

Nel 1972, Grossi stava lavorando alla creazione di un nuovo sistema di collegamento per i sottomarini in immersione che prevedeva l’utilizzo di grossi satelliti in orbita geostazionaria. Dimensionando l’antenna di questi satelliti, si rese conto che per poter fornire la giusta potenza essa avrebbe dovuto essere di 100 km di lunghezza. Un’impresa improbabile, a meno che non fosse stato possibile srotolarla dopo il lancio. Il progetto di telecomunicazioni proseguì in altro modo, ma l’intuizione di Grossi fece da trampolino di lancio per l’ingegner Giuseppe Colombo, che collaborò con Grossi allo sviluppo del tethered.

Il contributo di Giuseppe Colombo

Giuseppe Colombo, nato a Padova nel 1920, era un professore di Meccanica Razionale e fu tra i primi in Italia a promuovere tra ambienti universitari e agenzie aeronautiche la possibilità di un’esplorazione spaziale organizzata e nazionale. Fin dal 1961 fu collaboratore della NASA, contribuendo nel 1974 all’impresa del Mariner 10 verso Mercurio. Colombo, infatti, scoprì il rapporto di 2/3 che esiste tra la rivoluzione e la rotazione del pianeta più vicino al Sole e permise quindi al satellite di effettuare molteplici sorvoli del pianeta, moltiplicando a dismisura la mole di dati raccolti. Più tardi collaborò alla sonda Giotto che nel 1986 sorvolò la cometa di Halley. Il nome fu proposto da lui, ricordando la Natività di Giotto della Cappella degli Scrovegni di Padova, dove si trova la più antica raffigurazione “realistica” di una cometa; Giotto, infatti, aveva potuto osservare il passaggio proprio di quella di Halley nel 1301.

Colombo percepì subito i vantaggi, già citati, di poter srotolare un cavo di questo tipo nello spazio. Giuseppe Grioli, nel suo Ricordo di Giuseppe Colombo riporta una frase di Colombo: “C’è una zona dell’atmosfera di cui sappiamo pochissimo, tant’è che la chiamiamo Ignorosfera; poiché un satellite non può permanere in orbita a quell’altezza, potremmo da un satellite più alto farne discendere uno mediante un filo.”

Giuseppe Colombo

L’Ignorosfera è infatti la Mesosfera, cioè la parte di atmosfera tra i 50 e i 100 km dove non possono stazionare né velivoli e palloni aerostatici né i satelliti. I primi per la bassa densità dell’aria, i secondi perché la densità dell’aria non è comunque sufficientemente bassa da rendere accettabile il drag atmosferico.
Sull’idea di Grossi, Colombo fece quindi i primi calcoli, di pura meccanica razionale, scoprendo così un dato essenziale per la riuscita della missione: grazie alla quasi assenza di forza peso, per un filo lungo 50 chilometri sarebbe stato sufficiente un diametro di soli due millimetri per resistere alle forze di tensione.

La parte politica

Quanto segue è tratto dall’intervento dell’ambasciatore Umberto Vattani al seminario “Diplomazia e Spazio” del 14 dicembre 2021 all’Università di Padova.
Nonostante la vicinanza con la NASA di Grossi e Colombo, inventori del progetto, la nascita del Tethered non fu lineare. Sebbene l’idea fosse stata concepita nel 1972, solo nel 1979 si costruì un progetto serio di proposta alla NASA e ciò avvenne per motivi ben diversi dalla pura ricerca scientifica; fu un modo per ristrutturare l’Agenzia Spaziale Italiana e per ottenere indietro dalla neonata Agenzia Spaziale Europea i soldi versati e mai restituiti sotto forma di progetti.
La situazione era la seguente.

Nel 1979, il Presidente del Consiglio dei Ministri era Francesco Cossiga, alla sua prima esperienza di governo. Venne nominato Vito Scalia, un politico di razza, ministro (senza portafoglio) allo sviluppo scientifico e tecnologico. Scalia fece da subito una mossa intelligente, circondandosi di ottimi diplomatici quanto di ottimi scienziati, tanto da ricevere i complimenti di Roy Gibson, allora Direttore Generale dell’ESA, su quanto i diplomatici italiani erano preparati agli aspetti tecnici delle trattative. Di fatto Scalia fece in modo che il suo ministero, pure senza finanziamenti, diventasse il braccio operativo del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) appena fondato, uno dei primi al mondo peraltro.

All’epoca in Europa c’erano tre grandi progetti a cui gli sforzi scientifici di un Paese potevano essere indirizzati. Il CERN di Ginevra a cui l’Italia contribuiva con costanza, l’ESO per la ricerca astronomica a cui l’Italia si unì nel 1980 e l’ESA dove l’Italia in quattro anni aveva perso più di 70 miliardi di lire. Vale a dire, tenendo conto dell’inflazione, che il bilancio dell’ASI aveva un buco di 207 milioni di euro (normalizzati al 2021). Un vero smacco per il primo stato europeo a mettere in orbita un satellite di propria fabbricazione.

La nascita della collaborazione con la NASA

Erano dieci anni che si provava a creare un piano per lo “spazio italiano”, ma la stessa organizzazione interna dell’ASI non lo rendeva possibile. Nel frattempo la politica non interveniva su l’enorme spreco di risorse date all’ente europeo. Al consiglio dell’ESA per l’approvazione del bilancio del 1979, si presentò Umberto Vattani, capo di gabinetto del ministro Scalia, con le direttive per provare a sistemare la situazione. C’erano tredici paesi seduti al tavolo e ognuno aveva voce in merito; Vattani iniziò quindi a mettere riserve sui costi minori come spese postali e revisione macchine da scrivere, rallentando enormemente i lavori.

Il collegio decise quindi di aggiornarsi al giorno successivo, mentre Vattani, Gibson e altri membri istituzionali avrebbero analizzato il problema italiano in una riunione privata, nella quale, Vattani racconta, il tedesco aveva letto il giornale tutto il tempo. Vattani quindi minacciò di rimanere fuori dal bilancio annuale, privando l’ESA del supporto economico italiano, ma nemmeno questo turbò i suoi corrispettivi esteri, che non si sentirono minacciati dall’Italia che aveva abbassato la sua credibilità in merito negli ultimi anni.

Fu in questo clima che Scalia e Vattani andarono dal Ministro del Bilancio Andreatta, chiedendo soldi e risorse. L’appello dei due fu accolto. L’idea di fondo per il successivo progetto era quella di “far vedere ai colleghi europei quanto valeva l’Italia”. L’ASI venne riformata nel suo organigramma e in due mesi il piano spaziale era pronto. Era dettagliato e preciso, riportava le voci di costo per i lanciatori, il telerilevamento e i nuovi satelliti. Furono tutte approvate dal Parlamento.

L’ESA rimase molto sorpresa e rimase ancora più stupita quando, piano spaziale alla mano, l’Italia andò alla NASA, invece che da loro, offrendosi di collaborare. L’incontro con il Capitano Freitag avvenne a Orlando, Florida, e si presentarono Vattani, Colombo e il generale Broglio, padre dell’astronautica italiana, che quindici anni prima aveva reso possibile il lancio del satellite San Marco 1. Freitag si complimentò per la puntualità del piano spaziale e offrì delle collaborazioni secondarie, insufficienti però a rivalersi sui colleghi europei.

Il rilancio italiano consisté nella richiesta di soddisfare almeno tre requisiti:

  • Un progetto completo.
  • Visibile ed evidente.
  • Una cosa che sappiamo fare solo noi, tecnologicamente avanzato.

Freitag domandò se esistesse una cosa del genere, ed è qui che è bello immaginare Bepi Colombo che con orgoglio srotola il progetto per il primo prototipo di Satellite Tethered. All’approvazione da parte della NASA, anche le richieste italiane sul bilancio europeo furono accolte e lo strappo ricucito. Di lì a tredici anni sarebbe stato lanciato, in una missione Shuttle, il primo satellite a filo.

Il rilascio del satellite TSS-1 durante la missione STS-46

La prima missione Shuttle

Il 31 Luglio 1992 alle 13.56 UTC la missione dello space Shuttle STS-46 decollò da Cape Canaveral. Di lì a pochi minuti, il Payload Specialist Franco Malerba diventò il primo cittadino italiano a navigare nello spazio. La missione prevedeva la permanenza della crew nello spazio per una settimana e i principali obiettivi erano il deploy del satellite dell’ESA EURECA e del TSS, il Tethered Satellite System la cui progettazione era iniziata all’inizio degli anni Ottanta con una squadra mista NASA-ASI.

Il deploy del TSS avvenne con un giorno di ritardo rispetto a quanto previsto, per via di alcuni problemi riscontrati da EURECA. L’obiettivo del TSS era duplice. Analisi dell’elettrodinamica plasmatica della ionosfera e studio della stabilizzazione tramite gradiente gravitazionale, un’idea già notata nel corso della missione Gemini del 1966.

Il satellite e lo Shuttle sostavano in due aree con gravità distinta di un fattore 1/L^2 con L lunghezza del filo; l’analisi del suo comportamento avrebbe portato notevoli scoperte nel campo del controllo d’assetto e della geodesia spaziale. L’esperimento però non fu propriamente un successo. A causa di un bullone sporgente il filo fu in grado di svolgersi per soli 256 metri invece dei 20 chilometri previsti. Il satellite fu caricato sullo Shuttle e riportato a Terra.

Il secondo tentativo

Quattro anni dopo la missione STS-75 portò in orbita il Mission Specialist Maurizio Cheli e il Payload Specialist Umberto Guidoni assieme al satellite TSS-1R, obiettivo primario del volo. Il satellite di fatto era una versione aggiornata del TSS precedente.

Un disegno della tecnologia TSS in orbita terrestre. Credits: NASA

Venne effettuato il deploy a 296 chilometri di quota in una sezione della ionosfera elettricamente rarefatta. Il filo era fatto da un cuore di Nomex, un avvolgimento di rame conduttore, un isolamento di teflon e un supporto strutturale esterno di Kevlar. Lo sviluppo completo doveva essere di 20.7 chilometri, ma fu raggiunto solo il diciannovesimo chilometro prima della rottura del filo. Nella rottura si produssero diversi detriti e il satellite rimase in orbita per diverse settimane e fu visibile dal suolo.

Nonostante questo, le misure raccolte grazie alla conduttività del rame furono notevoli. Per esempio, si sono verificati i valori di potenziale elettrico del satellite e dello shuttle e la corrente nel tether dovuti al plasma spaziale, la distribuzione delle particelle attorno al satellite sferico, il campo elettrico ambientale e il cambiamento della resistenza intrinseca del filo. I valori trovati eccedevano i previsti del 300%, innovando grandemente i modelli di ambiente spaziali utilizzati fino a quel momento. Un successo scientifico notevole, a cui però non ebbe modo di partecipare Giuseppe Colombo, scomparso nel 1984. Il suo lavoro alla NASA fu portato avanti da Silvio Bergamaschi, suo allievo e fondatore del CISAS (Centro Interdipartimentale di Studi Spaziali) di Padova, dove ancora oggi lo studio dei sistemi a filo occupa un posto di rilievo.

Ma la storia di questa tecnologia non è ancora finita qui. Nel prossimo articolo dedicato ai satelliti Theter, in uscita il sabato 2 aprile, analizzeremo nel dettaglio questa tecnologia e come essa è ancora oggi studiata e immaginata in molte future missioni.

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