Agenzie Spaziali
| On 4 anni ago

Gemini VIII, la missione che per poco non uccise Neil Armstrong

Share

Mare delle Filippine, 16 Marzo 1966. Neil Armstrong e David Scott, rispettivamente comandante e pilota della missione Gemini VIII, alla loro prima esperienza spaziale, stanno per essere recuperati dalla USS Destroyer Leonard Mason. Indossano le tute, i Ray-Ban d’ordinanza, e si godono il caldo sole del Pacifico.

L’atmosfera rilassata non lascia trasparire che i due hanno appena mancato un appuntamento con la morte. E che il neonato programma spaziale americano ha appena rischiato le prime perdite umane della sua storia. Ma cosa è appena successo lassù, a 270 kilometri dalla superficie terrestre? Perché una missione che doveva durare tre giorni è stata interrotta dopo sole dieci ore? Cerchiamo di capirlo. E di capire perché quella missione ha rappresentato il primo passo di Neil Armstrong come comandante dell’Apollo 11.

Gemini, le prove generali per la Luna

Il programma Gemini della NASA è stato un pezzo fondamentale di un puzzle ben più grande, con il fine ultimo di organizzare missioni periodiche per la conquista e l’esplorazione lunare. Il programma quindecennale di conquista della Luna può infatti essere suddiviso in tre fase successive:

  • Mercury, dal 1958 al 1963, volto a mettere un umano in orbita attorno alla Terra
  • Gemini, dal 1963 al 1966, destinato allo sviluppo delle tecnologie per le missioni sulla Luna
  • Apollo, dal 1967 al 1972, con l’unico obiettivo di portare l’Uomo sulla Luna

Con le tre orbite attorno alla Terra percorse da John Glenn il 20 Febbraio 1962, durante la missione Mercury-Atlas 6, si poteva considerare raggiunto l’obiettivo della prima fase.

Nel mentre, la NASA era già al lavoro sul programma Gemini, le cui missioni prevedevano un equipaggio composto da due persone. Tra le molte cose che ancora andavano dimostrate, prima di poter pensare di spedire un equipaggio sulla Luna, vi era la capacità di “agganciare” due veicoli nello spazio.
Una manovra nota come docking, di routine al giorno d’oggi, ma che all’epoca rappresentava un ostacolo non indifferente. Dimostrarne la fattibilità avrebbe permesso di compiere un altro – piccolo – passo verso la Luna.

Durante le successive missioni Apollo erano infatti due i docking da dover eseguire. Il primo sulla via verso la Luna, quando il modulo di servizio si sganciava, si girava e attraccava al lander lunare. Il secondo in orbita lunare, quando il modulo di ascesa lasciava la Luna e si incontrava con il modulo di comando.

Il modulo Agena fotografato da David Scott poco prima del docking. Credits: NASA/David Scott

Gemini VIII, il primo docking della storia

Le missioni precedenti la Gemini VIII, dimostrarono la capacità di compiere attività extraveicolari (Gemini IV), di far sopravvivere umani nello spazio per periodi superiori ad una settimana (Gemini V) e di mantenersi a distanza costante da un altro oggetto in orbita senza però attraccare (Gemini VII).

Il naturale passo successivo sarebbe stato l’attracco, il primo nella storia, previsto per la missione Gemini VIII. La NASA convocò per l’occasione Neil Armstrong e David Scott, alla loro prima esperienza spaziale. Due razzi Titan II presero il volo ad un’ora e mezza l’uno dall’altro: il primo con il compito di mettere in orbita il modulo Agena, il secondo dedicato al trasporto della capsula con i due astronauti.

ANNUNCIO

Nei piani della NASA, la Gemini si sarebbe agganciata e sganciata dall’Agena per ben quattro volte nel corso di tre giorni. Per non farsi mancare nulla, Scott avrebbe anche effettuato un’attività extraveicolare prima del rientro sulla Terra.

Dopo un lancio perfetto ed alcune correzioni dell’orbita effettuate mediante i thrusters dell’OAMS (Orbit Attitude and Maneuvering System), Armstrong riuscì ad attraccare dolcemente al modulo Agena con la navicella Gemini. Appena sei ore e mezza erano trascorse dal lancio da Cape Kennedy. La missione poteva già considerarsi un successo, l’equipaggio aveva appena fatto la storia.

La Gemini VIII e l’Agena, a meno di un metro l’una dall’altra. Credits: NASA

Il corto circuito

Meno di un’ora dopo, le cose si fecero piccanti. Mentre le due navicelle, ora unite in un unico corpo, sorvolavano il lato buio della Terra e si trovavano in uno dei previsti silenzi radio, Scott notò che il loro angolo di rollìo stava aumentando. In missioni precedenti, il modulo Agena aveva dato problemi con il proprio ACS (Attitude Control System, dedicato al mantenimento di un dato orientamento nello spazio). Ciò convinse i due astronauti che il problema provenisse dall’Agena e non dalla Gemini.

Armstrong azionò dunque l’OAMS con l’intento ad arrestare il moto di rollìo. Ci riuscì, ma questo riprese subito dopo. Come da procedura in caso di problemi, Armstrong procedette con l’undocking, speranzoso di recuperare il controllo della Gemini, ma nulla di quanto previsto avvenne.

Liberatasi dal peso e dunque dall’inerzia dell’Agena, la Gemini iniziò a roteare ancora più velocemente, fino a raggiungere una velocità angolare di oltre un giro al secondo. Non era l’Agena la causa del problema, ma la Gemini stessa. Più precisamente, il thruster numero otto dell’OAMS, la cui valvola si era bloccata in posizione aperta a seguito di un corto circuito. Ad Armstrong e Scott rimaneva pochissimo tempo prima che l’eccessivo rateo angolare facesse perdere loro conoscenza: a quel punto, nessuno avrebbe potuto salvarli.

Una capsula identica a quella usata durante la Gemini VIII da Scott ed Armstrong. Credits: NASA

Armstrong realizzò che avrebbe potuto stabilizzare la Gemini disattivando l’OAMS ed utilizzando i razzi dell’RCS (Reentry Control System), in realtà adibiti a deorbitare la navicella al termine della missione. Questa volta il piano funzionò e pochi – interminabili – minuti dopo il guasto, la calma tornò nella minuscola cabina.

Gli ordini prevedevano però l’immediata interruzione della missione nel caso in cui, per qualsiasi motivo, l’RCS fosse stato attivato, e così fu. Armstrong avviò la procedura di rientro, non prima però di aver compiuto un altro paio di orbite attorno alla Terra. In questo modo, la nave preposta al recupero ebbe tempo di portarsi in prossimità del nuovo punto di atterraggio.

Sangue freddo e lieto fine

Lo splashdown avvenne nel Mare delle Filippine dopo 10 ore, 41 minuti e 26 secondi dal lancio. Poco più di tre anni dopo, Armstrong entrò nella storia come il primo uomo a camminare sulla Luna. Cinque anni dopo, durante la missione Apollo 15 dell’estate 1971, anche Scott ebbe l’onore e il privilegio di camminare sul nostro satellite.

Se quel giorno le cose fossero andate diversamente, il programma spaziale americano avrebbe subito una dura battuta d’arresto, probabilmente peggiore dello stop causato meno di un anno dopo dalla tragedia dell’Apollo 1. Quel giorno ci fu un altro grande risultato, quasi inatteso ma molto più tangibile. La NASA iniziò a puntare seriamente gli occhi su quel 36enne dell’Ohio. Cominciò ad apprezzarne la totale dedizione ai compiti assegnati e la riluttanza per i riflettori. Non da ultimo, il suo eccezionale sangue freddo colpì Deke Slayton, che lo avrebbe poi scelto come comandante dell’Apollo 11.

Il resto è storia.

Continua a seguire Astrospace.it sul canale Telegramsulla pagina Facebook e sul nostro canale Youtube. Non perderti nessuno dei nostri articoli e aggiornamenti sul settore aerospaziale e dell’esplorazione dello spazio.