La mattina del 1 giugno, a bordo della capsula Dragon gli astronauti Bob Behnkhen e Doug Hurley venivano svegliati dalle note di “Planet Caravan” dei Black Sabbath. Ascoltare quel ritmo così fluido e sognante immersi nello spazio in direzione ISS deve essere stata una sensazione indescrivibile.
Il viaggio di Bob e Dough è durato circa 19 ore, ed è solo l’inizio di una missione che li tratterrà in orbita dai 3 ai 4 mesi prima di rientrare sulla Terra. A malapena un terzo dell’intero anno trascorso a bordo della stazione da Scott Kelly e Christina Koch. Riflettendo su una permanenza talmente prolungata in un ambiente così diverso, oltre i sorrisi e gli sguardi appassionati degli astronauti, viene naturale porsi una domanda: cosa succede davvero al loro corpo e mente nello Spazio? Come ne vengono trasformati e chi sono al ritorno sulla Terra?
Primavera, estate, autunno, inverno: 1 anno attorno alla Terra
Un cambiamento consistente nell’espressione dei geni (con pochi esempi di danni al DNA). A sorpresa, i telomeri (le porzioni terminali dei cromosomi che normalmente si accorciano, scandendo il countdown dell’invecchiamento cellulare) sono risultati lievemente allungati. Il microbioma intestinale, alterato. Ridotto lo spessore della retina e della parete arteriosa della carotide. Sono solo alcune delle modifiche riscontrate nell’astronauta Scott Kelly al rientro dallo spazio.
Anche se il 90% dei geni di Kelly sono tornati alla norma sulla Terra, alcune delle alterazioni sono continuate nel tempo. Tra queste, un accorciamento anomalo proprio dei telomeri, una condizione correlata a probabilità di sviluppare infertilità, malattie neurodegenerative e cardiovascolari.
In vista delle nuove missioni verso la Luna e Marte, la permanenza dell’uomo nello spazio verrà considerevolmente prolungata e con questa anche la relativa esposizione ai fattori di rischio. Le sfide che gli astronauti saranno chiamati ad affrontare rischiano di compromettere in maniera significativa la loro salute e le performance che sono richieste per portare a termine la missione, soprattutto se in assenza di efficaci strategie per mitigarne l’impatto. E’ per affrontare questi aspetti e sviluppare opportune strategie che nel 2004 la NASA inaugurò lo Human Research Program (HRP).
Come pesci fuor d’acqua: il corpo umano nello spazio
Tom Williams, tra i principali ricercatori del programma HRP, descrive così la condizione dell’uomo fuori dal suo pianeta: “Siamo molto resistenti e adattabili a diversi cambiamenti, nel nostro ambiente. […] Ciò che emerge nel caso dell’isolamento nello spazio è che il contesto di adattamento viene rimosso e non siamo in grado di ingaggiare adeguatamente l’ambiente. Alcuni degli aspetti da cui dipendiamo per poterci adattare al cambiamento semplicemente non sono più disponibili.”
Un essere umano lontano dalla Terra diventa per analogia simile ad un paziente, le sue capacità psicomotorie risultano a tal punto impattate dall’ambiente spaziale, che per poter essere preservate richiedono alla persona di osservare un ben definito protocollo di routine quotidiana paragonabile ad una terapia tradizionale.
Il nostro corpo si è evoluto in simbiosi con le condizioni fisico-chimiche del pianeta, trasformando i limiti terrestri in parametri che delimitano il perimetro della nostra sopravvivenza, integrandoli nelle dinamiche grazie a cui funzioniamo, cresciamo e ci adattiamo all’ecosistema circostante.
La gravità terrestre, per esempio, è tra i fattori che maggiormente hanno plasmato l’evoluzione degli esseri viventi. Lontano dalla Terra, la netta riduzione di questa forza risulta in una progressiva riduzione della densità del tessuto osseo, chiamata osteopenìa spaziale e simile all’osteoporosi. Vale lo stesso per l’apparato muscolare scheletrico che va incontro a perdita di massa soprattutto a carico della schiena e delle gambe.
Cambia la fluidodinamica del nostro organismo, i parametri del sistema cardiocircolatorio vengono alterati con variazioni della pressione arteriosa ed un aumento del volume cardiaco, accompagnandosi ad un maggiore flusso sanguigno verso il busto e la testa, responsabile del gonfiore del viso (edema facciale) e di variazioni della pressione oculare, associata a disturbi di vista più o meno prolungati anche dopo il rientro sulla Terra.
Se consideriamo che un’orbita della ISS attorno alla Terra è di 90 minuti, il “giorno” e la “notte” hanno una durata di 45 minuti ciascuno. Questi cicli anomali riscrivono i ritmi circadiani biologici che, in un contesto di generale carenza di luce e aria naturali, causano disturbi del sonno e influenzano il rilascio di messaggeri chimici e ormoni.
Temperatura, pressione, aumento sensibile della concentrazione ambientale di CO2 rispetto all’ossigeno: ulteriori fattori che compartecipano a creare una situazione di disagio e stress prolungato spingendo il corpo verso nuovi equilibri di adattamento, con il rischio di insorgenza di condizioni patologiche, acute e croniche.
La lista reale è ancora più lunga, ma prima di continuare aggiungiamo un ulteriore tassello del discomfort vissuto nello spazio: ascoltate qui il rilassante suono della Stazione Spaziale Internazionale, registrato dall’astronauta Chris Hadfield.
Mens sana in corpore sano: l’impatto neuro-cognitivo della permanenza nello spazio
Secondo gli studi condotti dallo Human Research Program, per almeno 25 tipologie di rischi identificati come fisico-chimici, si ha un conseguente impatto anche sulla performance cognitiva nel breve e lungo termine. A questi si aggiungono condizioni che mettono ulteriormente sotto pressione la stabilità, oltre che fisica, anche cognitiva, emotiva e sociale degli individui.
Da qualunque angolo proviamo a inquadrare le moderne capsule spaziali o la ISS, queste non spiccano per varietà estetica. La permanenza prolungata in orbita si accompagna quindi alla convivenza con un ambiente sensorialmente monotono e tendenzialmente claustrofobico, essenziale e interamente artificiale, legato all’operatività quotidiana ma incapace di soddisfare pienamente la naturale ricerca del nostro cervello di nuovi stimoli e dettagli sensoriali.
Solo noia? Non esattamente. Un cervello esposto a monotonia sensoriale si comporta come un muscolo poco esercitato. I tessuti cerebrali vanno incontro a vere e proprie forme di atrofia, con morte neuronale (in particolare nell’area dell’ippocampo) e riduzione nella liberazione di neurotrasmettitori come la serotonina, con alterazioni dei circuiti neuronali ed una probabilità crescente nel tempo di sviluppare disordini comportamentali quali ansia e depressione. Inoltre, una cronica attivazione da stress induce un aumento della pressione arteriosa ed una ridotta efficienza del sistema immunitario.
Nello storico delle missioni spaziali, i disturbi comportamentali non sono stati solo una possibilità. Ad esempio, nel periodo che ha scandito la collaborazione tra americani e russi sulla stazione spaziale MIR il 29% degli astronauti ha sviluppato sintomi depressivi. Nel 1985, a bordo dell Soyuz T14-Salyut 7, la depressione del comandante Vladimir Vasyutin fu persino tra le cause principali dell’evacuazione e della terminazione anticipata della missione.
Recenti ricerche hanno evidenziato che viaggiare nello spazio può condurre ad un deterioramento dei tessuti del cervello, in particolare a carico della sostanza bianca di aree che regolano gli input sensoriali (tra cui il sistema vestibolare che regola l’equilibrio e viene normalmente stimolato dalla gravità) ed il controllo motorio. Un processo che assomiglia molto all’invecchiamento, solo più rapido.
Va inoltre considerato che per sopportare i continui danni fisici da permanenza in orbita (tra cui mal di schiena cronici), agli astronauti vengono spesso prescritte formulazioni di oppioidi che compartecipano ad alterare la funzionalità del sistema nervoso ed espongono il personale al rischio di dipendenze, sia nello spazio che dopo il rientro dalla missione.
“Sei davvero, davvero lontano dalle persone che ami sulla Terra e questo può renderti spesso triste. (…) Inoltre, ti trovi a bordo sempre con le stesse persone, per cui se emerge del conflitto non hai nessun altro posto dove andare. Devi affrontare la situazione, e questo diventa una vera sfida.” – secondo l’astronauta David Saint-Jacques, della Canadian Space Agency.
L’alterazione dei ritmi sonno-veglia così come l’illuminazione artificiale (che ha un effetto neurostimolante e riduce il rilascio di melatonina) e l’ambiente acustico disturbante conducono ad una maggiore irritabilità, disturbi del sonno, riduzione delle performance psicomotorie, anomalie comportamentali e reazioni emotive progressivamente meno prevedibili. Uno scenario con ripercussioni non solo sul benessere del singolo individuo, ma anche sulla capacità di relazionarsi e collaborare con gli altri astronauti.
Un team meno coeso, potenzialmente minato anche da naturali bias emergenti in un contesto sempre più diversificato per sesso, cultura ed etnia, può portare all’inasprimento di tensioni apparentemente poco significative prima della partenza, ma capaci di compromettere il successo della missione in orbita. Tensioni e contrasti che in passato hanno persino portato a quello che può essere definito il primo caso di “sciopero” nello spazio, l’ammutinamento dello Skylab nel 1974.
“La chiave del successo è che non puoi funzionare bene se non sei felice, e non puoi esserlo se non vivi bene insieme alle persone che ti circondano” – conclude David Saint-Jacques.
Dalla misura delle sfide alla progettazione delle soluzioni
Ma attenzione a vedere nello Spazio solo un ambiente ostile. Secondo il Dott. Gary Beven, psichiatra della NASA, “C’è un’idea sbagliata emersa nel tempo, quella per cui l’ambiente spaziale sia inerentemente pericoloso o rischioso, da un punto di vista psicologico. Le conseguenze di natura comportamentale registrate durante le missioni sembrano essere spesso correlate a problematiche terrestri presistenti.”
Vi sono persino studi che indicano lo Spazio come esempio di salutogenesi, processo in cui una persona è positivamente impattata dal doversi adattare ad ambienti difficili e stressanti, come già testimoniato in passato da missioni sottomarine o in contesti polari. Senza dimenticare che proprio lo Spazio per molti astronauti ha rappresentato un potentissimo stimolo cognitivo in grado di modificare le loro più intime convinzioni culturali, sociali, umane. Un cambiamento di paradigma che lo scrittore Frank White descrisse come “the overview effect” nell’omonimo libro dopo aver intervistato 29 astronauti e che anche l’italiano Paolo Nespoli ricordava scrivendo “Poter vedere la Terra e lo spazio da lassù è una visione che segna, che ti fa vedere il nostro pianeta come mai prima.”
E’ innegabile che la permanenza nello spazio impatta profondamente su ogni aspetto della fisiologia umana, tuttavia predisposizioni genetiche, stili di vita, contrasti sociali e culturali possono talvolta costituire terreno fertile per l’acutizzarsi di rischi una volta lontano dal nostro pianeta. La varietà di problematiche descritte è in verità solo una minima parte di uno scenario molto più complesso, frutto della raccolta di un’enorme quantità di dati registrati dall’inizio dell’esplorazione spaziale. Attualmente, tipologia e numero di informazioni stanno aumentando esponenzialmente man mano che vengono introdotti sensori sempre più pervasivi, utili a monitorare gli astronauti in ogni minimo aspetto della loro quotidianità extraterrestre.
Più avanti ci spingiamo nell’avventura spaziale, più capire come ne veniamo trasformati diventa un’opportunità per comprendere i limiti e le potenzialità del nostro corpo, con significative ricadute terrestri in molteplici ambiti quali medicina, psicologia e scienze sociali.
Raccogliere e interpretare i dati raccolti è, inoltre, il presupposto essenziale per sviluppare efficaci contromisure e assicurare non solo il successo della missione ma una permanenza nello spazio e un rientro sulla terra degli astronauti nelle migliori condizioni di salute possibili. Quali sono queste contromisure? Ne parleremo nel prossimo articolo su Astrospace!